La belva del fiume

Aveva cominciato la seconda parte della sua vita, delle due parti quella più simile alla morte.
La luna gialla nel cielo notturno filtrava la sua luce obliqua tra i rami secchi degli alberi, mentre a Oriente i primi raggi del sole diffondevano nel cielo nero un primo lattescente chiarore. Era buio e freddo. Più buio e più freddo a Occidente. Nell’oscurità, nascosto dietro al tronco di una grossa quercia spoglia, aspettava. Aspettava, come un predatore, che la vittima si avvicinasse. Ne sentiva, ora, lontani, i passi. Si avvicinava correndo, la preda, e il rumore dei piedi che battevano ritmicamente sulla terra gelata era via via più netto, rimbombava nel silenzio dell’aria tesa, si fondeva col ritmo del cuore del predatore che accelerava. Uccelli neri nelle prime luci del mattino si levarono in volo, cercando il primo sole verso Est. Verso Est correva anche la preda, ma dietro il nero albero lui aspettava. I suoi occhi gialli erano come fessure, rilucevano ai primi raggi come la brina sull’erba senza vita, i suoi denti si aprivano leggermente mostrando la rossa lingua pronta a tendersi.
Il predatore era nella seconda parte della sua vita, quella più simile alla morte. E avrebbe cominciato col dare la morte a quella creatura che ignara, quella mattina, si avvicinava.
Il gorgoglio delle acque del fiume alle sue spalle aveva lo stesso tono del ringhio bestiale che gli risaliva dal profondo del torace. Cresceva. Non riusciva a fermarlo. Scattò ruggendo. Non riusciva a fermarsi. Le sue mani, come artigli, avvinghiarono al collo la preda . La gettò a terra e le balzò sopra urlando. E non si fermò più.

Verso le nove del mattino, quando la brina si era già sciolta, un pescatore che si recava al fiume vide una specie di grosso fagotto azzurro e rosso appoggiato ad alcuni cespugli secchi. Quando si avvicinò i suoi stivali affondarono in una pozzanghera mezzo gelata, dall’acqua tinta di rosso. Tutta l’erba secca intorno era rossa. Il fagotto aveva due braccia e due gambe. La testa, invece, era quasi staccata dal tronco e giaceva obliqua, lievemente appoggiata su un alberello. Dal profondo solco del collo il sangue era fuoriuscito copioso e ora, rappreso, formava una specie di collare di ceralacca vermiglia. Il pescatore si sentì venir meno nel guardare lo scempio del corpo di quella giovane donna. Era come incantato, e fissava rigido gli occhi vitrei di quel volto quasi sorridente, appoggiato sul piccolo albero in posa quasi leggiadra. Poi, d’un tratto, una scarica elettrica attraversò il corpo del vecchio, come un fulmine. Gettò la canna da pesca e si mise a correre all’impazzata. Verso il bar della frazione lì vicino. Verso un telefono. Verso qualcuno. Via da quel posto orribile.

Marco Falaschi

Nato nel 1966. Libero professionista.