La soluzione

- Stai fermo, aspetta...
- No, non posso, non posso.
- Sì che puoi, non guardarmi negli occhi. Sono già qui, non li senti dietro la porta?
Stefan dalla parte opposta del divano stava piangendo. Aveva già finito, con il coltello grondante che gli tremava ancora in mano. Era zuppo di sangue, ne aveva nei capelli e sulla faccia, e giù fino alla cintola. I pantaloni erano stati risparmiati solo perché mentre lo colpiva gli era stato sopra a cavalcioni.
- Digli di non muoversi, ancora per un attimo, che andrà tutto bene.
Ma non c’era pericolo: Stefan se ne stava lì immobile, ora. Non era riuscito neppure a guardarlo durante i colpi cupi e bagnati che gli aveva tirato e che sarebbero rimasti per sempre nel fondo stracciato dei suoi occhi. E come avrebbe potuto guardarlo dopo averlo salutato, baciato... dopo quello che era stato costretto a fargli... Se li sarebbe fatti esplodere gli occhi pur di non fissare quel corpo senza vita ancora caldo e morbido, sul quale aveva appena galoppato.
Agron, invece, doveva ancora cominciare. La sua vittima se ne stava lì sotto a dargli coraggio e sorrisi tirati, mentre lui faceva finta di penetrarla col suo coso moscio là in mezzo alle gambe, davanti a quel triste ciuffo peloso e grigiastro, senza alcun possibile piacere ma con infinito orrore e il cuore e la pancia che gli ribollivano di pietà e vergogna. Solo il Signore con tutti i suoi stramaledetti santi sapeva quanto ne avrebbe fatto a meno.
Ma lei aveva insistito, aveva urlato come una pazza che non c’era altro modo, che era giusto così, che in quel modo sarebbe sembrato più vero.
L’incubo era iniziato una settimana prima. Anche se era così difficile distinguere l’inizio e la fine nella sequenza di incubi che la guerra aveva innescato. Da anni ormai la gente si ammazzava come andare a fare la spesa. Intere famiglie scomparivano nel nulla senza lasciare più traccia, donne e bambini compresi. Non solo per mano dei soldati. Ormai lo facevano tutti, anche i civili, per rubarti la casa e tutte le tue cose, ma anche per compiacere ai generali del Distretto. Non erano solo i serbi i cattivi. Anche qualche kosovaro albanese aveva venduto la pelle dei suoi fratelli nell’illusione di mantenere salva la propria. Era un inferno. Di quelli veri.
Un giorno, si capì che il plotone di Radomic (lo Sciacallo Bianco) doveva essere arrivato alle porte del paese. Era probabilmente quella che loro chiamavano la rasoiata finale. Non c’era stato bisogno di vederli, il loro arrivo era stato annunciato dalle raffiche di mitra e dalle esplosioni. Da quel momento, dopo aver convissuto col terrore per settimane, ad ogni abitante del minuscolo villaggio di Dukagjin fu chiaro che la fine sarebbe giunta, inevitabile come il sangue e il dolore dopo una singola sprangata ben assestata sulla nuca. Nessuno avrebbe avuto possibilità di scampo. La lama del nemico era ben affilata ed infallibile. Chi pensava di salvarsi fuggendo nei boschi, prima o poi sarebbe saltato su qualche mina oppure avrebbe inciampato in un soldato accovacciato dietro i rami e le felci, magari intento a cagare il pranzo appena saccheggiato da qualche maso in fiamme. Succedeva sempre. Ma non per loro. Una sera il vecchio era rincasato più tardi del solito con in mano un sacchetto di carta bianca. L’aveva svuotato lentamente sul tavolo in soggiorno, senza togliersi la giacca, mentre gli altri tre se ne stavano tranquilli a guardare la televisione. Erano due divise militari, verdi. Serbe. La mamma, all’inizio, aveva fatto finta di non vedere, tenendo gli occhi fissi sullo schermo. Era evidente che invece sapeva benissimo di cosa si trattasse.
- Agron, Stefan venite qui - disse il padre.
I due ragazzetti si erano alzati sbuffando ma senza esagerare, che avevano capito da quando era entrato in casa che la faccenda doveva essere seria.
- Queste sono per voi.
- Sei impazzito? - disse Stefan, fuori di sé.
- Non abbiamo alcuna intenzione di unirci a quei cani bastardi - aggiunse Agron.
Ci fu un attimo di silenzio finché sentirono la madre spegnere la televisione e andare a mettersi di fianco a suo marito.
- Questo è l’unico modo per non farvi ammazzare - disse.
- Cosa stai dicendo? - continuò rabbioso Stefan - Ti rendi conto?
- Io sì, sei tu Stefan che non hai ancora ben capito.
Poi, purtroppo, ancora prima che i loro genitori ebbero terminato la spiegazione del loro piano, Stefan e Agron capirono.
E piansero.
Piansero per giorni senza riuscire a dire una sola parola che riuscisse a fargli cambiare idea, senza trovare una soluzione differente da quella follia.
Da quell’assurdo gesto d’amore.
Non ebbero neppure la forza di resistergli. L’ansia per l’ineluttabilità della morte aveva annullato qualsiasi logica, qualsiasi resistenza. Solo i loro genitori sembravano essersi risvegliati, aver ritrovato un senso nella fine. Erano persino euforici nel discutere tra di loro i dettagli della messa in scena, dell’atto finale nel quale avrebbero sacrificato le loro vite per quelle dei loro due preziosi figli.
Spalancando la porta di casa i soldati serbi non avrebbero avuto alcun dubbio su quello che stava avvenendo. Se ne sarebbero andati applaudendo quei loro arditi compagni che li avevano preceduti e che se la stavano spassando come maiali alle spese di quei due lerci albanesi. Così sarebbe andata e poi Stefan e Agron sarebbero scomparsi indisturbati verso Prizren e da lì si sarebbero rifugiati in Macedonia. C’erano amici che li avrebbero aiutati laggiù.
Solo che non andò così. Agron non fece in tempo a compiere il sacrificio al quale sua madre l’aveva costretto. Ebbe solo il tempo di vedere la testa di Stefan saltare come un melone e il coltello che ancora teneva in mano rotolare fin sotto la poltrona. Poi la luce si spense anche per lui. Per sempre.
I soldati con gli stivali infangati sulla divisa verde sporca di sangue, lo spinsero di lato e liberarono la donna, ancora viva. Piangeva. La portarono fuori di peso. Per l’uomo non c’era più niente da fare.
Dopo averla rivestita, verificarono che non avesse ferite e la misero sul pulmino insieme agli altri sopravvissuti.
Era stordita. Non capiva se fosse morta o viva. Quando riprese fiato e lucidità, chiese dove fossero i suoi figli e suo marito. Nessuno le seppe dare una risposta. Poi, una donna che le parve di conoscere, le disse: - Lorana, è finita. Non ti devi più preoccupare sono arrivati i soldati americani a salvarci. Adesso ci porteranno in un posto sicuro, vedrai che i tuoi figli saranno lì anche loro. Non pensarci.
Sentì il sedile muoversi, si girò a guardare fuori e vide per un istante i soldati con le divise bianche e la scritta U.N. portare fuori i corpi di Stefan e Agron e lanciarli sul retro di un furgone aperto. Cercò di alzarsi, di scendere ma delle mani la trattennero, la spinsero a sedersi, e tutti le dissero cose che non capiva, che non sentiva. Che non voleva sentire.
Mentre fuori le forme scorrevano, svanivano, coperte dal bianco della neve e da un dolore che non sarebbe mai svanito.
Il dolore di aver fatto sterminare la propria famiglia, per niente.
Un dolore peggio della morte che aveva appena scampato, peggio della guerra, peggio di tutti quei giorni che avrebbe dovuto ancora vivere.
Da sola stavolta.

Marco Muzzana

Marco Muzzana è nato a Milano il 15 ottobre 1968. Laureato in lingue e letterature straniere, quando non scrive o legge romanzi e racconti horror thriller gialli e noir, si occupa di formazione e consulenza in ambito interculturale. E’ sposato, ha due figli, un cane e con tutti loro vive nella ridente cittadina di Rozzano, periferia sud di Milano. Da qualche tempo ha avuto anche la bella idea di aprire un blog (https://raccontineri.blogspot.com). Per ora i suoi lettori sono parenti e amici, quelli di stomaco forte almeno.