Piccole fate danzanti

Buio, buio assoluto.
Totale assenza di qualsiasi barlume di luce, mi immagino le mie pupille espandersi invano alla ricerca di un’immagine da fissare sulle retine, di un qualsiasi modo per convincere il cervello che non sono immerso in una vasca piena di inchiostro nero.
Anche i suoni del mondo esterno giungono ovattati alle orecchie, filtrati dallo spesso strato di legno e terra che isola la cantina nella quale sono rinchiuso da giorni. Sono rannicchiato in un angolo tra quelli che credo essere due mobili o vecchi scaffali, facendomi piccolo e tremando di paura. Non riesco a fermare il movimento convulso che si è impadronito del mio corpo stremato, sento pulsare il cuore velocemente nelle orecchie, in un ritmo accelerato quasi da danza tribale africana, stringo i denti e li faccio stridere in modo sinistro per evitare di farli battere tra di loro. Credo che se li lasciassi andare potrebbero frantumarsi come bambole di porcellana calpestate da una bambina dispettosa.
In fondo alla mia anima, dove la lucidità confina col delirio, regna la paura.
Ho paura, paura di commettere un errore, ne va della mia stessa vita, non posso assolutamente sbagliare, Lui mi punirebbe.

Mentre sussulto al rumore, un rombo di un tuono lontano, di una caldaia che si accende, non mi sono ancora abituato alla sua presenza e mi fa trasalire ogni volta, percepisco uno zampettio, è solo un topolino. L’ho già sentito aggirarsi tra il ciarpame alla ricerca di qualche briciola di cibo, è stato la mia sola compagnia nelle ultime ore, in attesa di un destino che posso soltanto intravedere, legato solo alla speranza che la mia esistenza non stia per giungere alla fine.
L’ immobilità mi rende le gambe insensibili, con uno sforzo cerco di spostare un piede in una posizione un po’ più comoda senza fare rumore, mi massaggio come posso i polpacci doloranti, spostando il peso alternativamente da una gamba all’altra. Inutile, tremo come una foglia e il dolore alle estremità e allo stomaco è sempre più forte. Sono debole, ho fame e sete, soprattutto sono solo. Questa potrebbe essere la degna conclusione di un’esistenza fatta di solitudine, di incomprensioni, di persone che mi hanno voltato le spalle. Dopo l’evento che ha segnato tragicamente la mia vita, niente è stato più come prima, ho dimenticato il significato della parola normalità.
Sta arrivando qualcuno. Sento passi pesanti su quella che immagino essere una scala di pietra. Stanno armeggiando con la serratura, sento la chiave girare nella toppa e all’improvviso una lama di luce sciabola nella stanza. Ho una fugace visione dell’ambiente che mi circonda, fatto di vecchi ripiani carichi di quelle che credo essere bottiglie di vino, scatoloni polverosi ripieni di chissà quali poveri tesori, due biciclette da bambino ormai arrugginite e coperte di polvere, la stessa polvere che vedo, come uno sciame di piccole fate danzanti, nel raggio di luce che passa a pochi centimetri dalla mia faccia. Le immagino come tante piccole figure femminili con piccole orecchie a punta, bionde, alate e sorridenti, e le odio.
Un vecchio arcolaio, addossato alla parete, mi riporta alla mente una favola che mia nonna mi raccontava tanti anni fa quando ancora potevo sedermi sulle sue ginocchia e non immaginavo il tragico destino che mi aspettava; se non ricordo male una bambina si pungeva con un fuso avvelenato e solo il bacio di un principe poteva risvegliarla, se solo fosse così facile risvegliarmi dal mio incubo...
L’uomo scende lentamente le scale fino a raggiungere il pavimento di terra battuta, ha in mano una lampadina tascabile, intuisco dal luccichio che si tratta di una di quelle piccole e potenti di origine americana. Dio, fa che non mi veda.
Si aggira per la stanza che adesso scopro ampia anche se dal soffitto basso. E’ di buona statura e fisicamente robusto, deve tenere la testa leggermente chinata per non urtare le travi di legno massiccio. Fruga in un baule facendosi luce con la torcia, mi volta le spalle e sono tentato ma non posso sbagliare, Lui non avrebbe pietà.
Passano alcuni minuti che a me sembrano ore, poi sembra che l’uomo abbia trovato quello che stava cercando, lo vedo estrarre dal contenitore un polveroso libro dalla copertina di pelle consunta, forse un album di vecchie fotografie ingiallite dal tempo o un magico grimorio pieno di potenti incantesimi, la paura mi fa volare la fantasia.
Si rialza, rotea il fascio di luce in tutte le direzioni come a voler controllare che sia tutto a posto, fortunatamente non indugia su di me che sono avvolto nel mio vecchio cappotto, mi scambia forse per un mucchio di stracci gettati in un angolo. La luce accende i colori degli oggetti, mi ricorda un recente passato quando la mia potente torcia illuminava i fondali marini facendoli risplendere di mille sfumature iridescenti.
L’uomo si volta in direzione del riquadro illuminato della porta, tre passi e poi posa il piede sul primo gradino, mi volge le spalle, è il momento, Lui mi mette a disposizione quel poco di energia che mi serve. Estraggo i miei artigli, snudo le mie zanne avide e spicco un balzo con le ultime forze che ci sono rimaste. Gli atterro sulla schiena conficcandogli le lame cornee che mi spuntano dalle mani e dai piedi nella carne tenera della schiena con un rumore raschiante. Mentre sono appeso su di lui, con gli artigli a mo’ di ramponi infissi nel ghiaccio, gli mordo con forza la nuca, penetrando per parecchi centimetri tra cartilagini, muscoli e nervi. Il sapore del sangue mi ridona vigore, l’uomo muore prima di toccare terra, ed è meglio per lui perché il mio peso gli fa sbattere il volto sugli scalini, sento lo scricchiolio delle ossa facciali che si spezzano, dei denti che si rompono. Le mie ginocchia affondano tra le sue costole.
Sono stato bravissimo, non ho fallito, non ho fatto rumore, sono stato rapido e letale. Chiudo la porta, non ho bisogno di luce per fare quello che devo, trascino il corpo ormai immobile sul pavimento poi con un movimento rapido che ormai ho imparato alla perfezione spezzo il dente dell’epistrofeo e distacco la spina dorsale dal cranio. Il liquor è dolce al mio palato, il midollo una prelibatezza. Infilo la mia lingua divenuta in un attimo coriacea nel foro occipitale e finalmente mi nutro, con calma, assaporando ogni attimo del mio pasto come se fosse l’ultimo. Un giorno non riuscirò a essere rapido, silenzioso e efficiente e allora sarà la fine per me, Lui troverà qualcun’altro.
Termino il mio cibo, mi lecco le dita, poi mi siedo per riposarmi e permettere al mio corpo di assorbire le sostanze che ho assunto, indispensabili al nostro sostentamento. Buona parte di esse mi verranno sottratte dall’essere mostruoso che vive in me, soggiogando la mia volontà e la mia biologia con le sue da anni, ormai. Più tardi tornerò a immergermi nella vasca che mi ha fatto costruire nel mio/nostro rifugio, l’eccesso di ossigeno lo disturba, abituato com’era alle profondità marine. Il re dei Vampyroteutys infernalis, una leggenda biologica orribilmente mutata da chissà quale tremendo evento sottomarino, oppure dall’inquinamento, oppure ancora da una bizzarra evoluzione della specie. Come un predatore intelligente e micidiale mi ha catturato e si è insediato nel mio corpo, mi sembra ancora impossibile accettare di essere diventato il servitore di una creatura evolutasi da un tetro ma innocuo calamaro abissale. Ormai, da anni, è il mio solo e unico padrone, mi obbliga a girovagare alla ricerca di cibo (adora le cellule cerebrali), e di un altro come lui. Sostiene di non essere il solo. Vuole riprodursi, evolversi, non avere bisogno di un ospite come me.
Attendo che qualcuno venga a cercare la mia vittima, mi obbliga a sfruttare tutte le risorse di questa casa, a nutrirmi di tutti i suoi occupanti, uno alla volta.
Poi, tra qualche giorno mi muoverò, devo cercare un’altra cantina...

Gianluca Magozzi