Pazzia

E' dura uscire dalle coperte calde, ma ho la vescica grossa come una zampogna. È notte. Una brutta notte. Fuori la pioggia grida violentata dal vento. La luna vomita la sua luce fredda sulla camera da letto, e solo quando m’infilo le ciabatte, m’accorgo che lui non c’è. Non mi sono accorta della sua mancanza e lui non ha fatto rumore. Strano. Di solito si muove con la delicatezza di un Tyrannosaurus Rex ubriaco. Vi lascio immaginare cosa voglia dire fare l’amore con lui.
Cammino verso il bagno dicendomi che anche lui dev’essersi svegliato per far pipì. Immagino che abbia già pisciato tutta la tavoletta. Gliel’ho detto migliaia di volte di stare attento a dove spruzza la sua stramaledetta urina, e quante volte gli avrò detto di sollevare la tavoletta? Mille volte? Diecimila? Non c’è niente da fare. Non ci pensa. Sono arrivata a capire che non lo fa per cattiveria. Proprio non ci pensa.
Quasi me lo vedo con gli occhi gonfi e mezzo chiusi, tutto rincoglionito, che spara il suo getto giallo a casaccio, sperando di centrare il bersaglio.
Mentre raggiungo il bagno, mi accorgo che una luce tremolante sanguina dal salone. Corruccio la bocca e sbadiglio. L’uomo che ho sposato è davvero una testa di legno. Quand’è venuto a letto si sarà dimenticato la tv accesa, mi dico.
Raggiungo il salone, apro la porta e sento una lama di paura trapassarmi il cuore. La scena in sé potrebbe apparire anche comica, ma in questo momento non ci trovo nulla da ridere.

La tv è accesa, ed è sintonizzata su un vecchio film nazista in bianco e nero. La luce, come una ragnatela di spettri, illumina mio marito. È seduto su una poltrona posizionata di fronte alla tv, a circa due metri di distanza. Lui ha l’aria concentratissima, intento com’è a guardare le immagini. È del tutto rapito dal film. Indossa una canottiera bianca che gli và stretta sui pettorali flosci, e un paio di boxer rossi che gli fanno apparire il culo più grosso di quanto in realtà sia. Null’altro. Null’altro a parte una grossa pistola a tamburo che regge nella mano destra, abbandonata su un bracciolo del divano.
Ma la sorpresa non è finita qui.
Sulla fronte spaziosa della mia dolce metà, c’è in bella mostra una svastica rossa disegnata con un rossetto. So che è rossetto perché lo vedo ancora aperto e mezzo consumato sopra un tavolino alla destra del mio uomo.
Sul tavolino non c’è solo il rossetto, ma anche un rotolo di nastro adesivo da pacchi, un grosso coltello, un foglio che mi sembra sia la lista della spesa per domani, una bottiglia di Glen Grant quasi finita e il barattolino delle pillole di mio marito contro la depressione. La scatola delle pillole è vuota.
Merda! Il dottore ci aveva raccomandato di non mischiare mai le pillole con l’alcool. Ci aveva detto che poteva essere fatale.
Nella mente ho una tempesta di pensieri agitata dalla paura.
Dovrei muovermi. Forse dovrei chiamare aiuto, ma non ci riesco. È come se mi avessero cristallizzata.
Lui si volta verso di me, e i suoi occhi s’illuminano di una luce che non vi avevo mai visto prima. Una luce perversa.
«Oh, eccoti! Sei arrivata giusto in tempo» mi dice Giulio alzandosi e prendendo in mano la lista della spesa. Nell’altra tiene stretta la pistola. Non sapevo che ne possedesse una. In questo momento mi chiedo quante siano le cose che non so di mio marito.
«È appena arrivato questo dispaccio dal ministero di pulizia etnica» dice mostrandomi la lista della spesa. «Purtroppo ho avuto la conferma di ciò che ho sempre sospettato.»
Assume un’aria corrucciata, venata di tristezza.
«Giulio, che cazzo ti sta succedendo? Cos’è quella pistola? Mi stai spaventando» riesco a dire con un filo di voce.
Le mie parole gocciolano nella stanza, e lui se le scrolla di dosso come fossero il frutto di una pioggerellina fastidiosa.
«Il dispaccio non mente. Ha il timbro ufficiale del terzo Reich. Vedi cara, il ministero mi ha appena comunicato che sei una fottuta ebrea.»
Le sue parole sono taglienti. Il tono della sua voce è secco. I suoi occhi sono freddi come la notte che ulula fuori.
Non è mio marito.
«Giulio, questo scherzo non mi piace!» dico iniziando ad arretrare.
Lui cammina lentamente venendo verso di me. Il braccio con la pistola sempre lungo un fianco, e la mano con la lista della spesa davanti al cuore, come se stesse giurando.
«Non puoi sapere quanto mi dispiace. Sono mortificato. Sono umiliato. Se avessi saputo da subito che eri una sporca ebrea, ti avrei ucciso molto tempo fa con le mie stesse mani. Invece tu, brutta troia bugiarda, mi hai ingannato. Mi hai sposato senza dirmi niente. Ti sei presa gioco di me ridendo alle mie spalle. Sei stata davvero una puttana molto abile.»
Non credo a ciò che vedo. Non credo a ciò che sento. Sto ancora sognando per caso? Cazzo dev’essere così, perché altrimenti non ci capisco davvero niente.
D’improvviso, scoppio a ridere.
Giulio prima mi guarda con sguardo interrogativo, poi la sua bocca si distende in un sorriso, ed esplode anche lui in una grassa risata.
Oddio! È tutto uno scherzo. Quasi me la facevo sotto.
Ridendo come un’idiota mi avvicino al mio uomo e gli stringo un braccio. Sono maledettamente sollevata.
«Ci sei cascata alla grande, eh?» dice lui buttando la testa all’indietro.
«Bastardo! Mi hai fatto venire un infarto!» gli dico cercando di fare la seria, ma poi rido anch’io come una scimmia ubriaca.
«Ma guarda come ti sei conciato» dico indicando la svastica rossa sulla sua fronte.
«Bella vero?»
«Che pazzo che sei» dico accarezzandogli la guancia.
«Già» dice lui, poi mi sferra una testata che mi spappola il naso.
Mi ha colpito con tutta la forza dei suoi novantotto chili.
Stramazzo a terra con violenza.
«Sorpresa!» grida mio marito scoppiando poi a ridere come un fottuto pazzo.
Il sangue mi scivola dentro la bocca. Scorre copioso come il dolore che mi inonda il cervello.
«Brutta puttana» sussurra incrociando le braccia sul petto. La canna della pistola riluce.
Mi porto le mani al naso, cercando di fermare l’emorragia. È impossibile. Ho gli occhi inondati di lacrime, e vedo la sua figura sfuocata.
«Ti sei divertita a prendermi per il culo, non è vero? Chissà cosa penseranno di me i ragazzi giù alla caserma.»
Non ho la minima idea di ciò che sta dicendo. Caserma? Lui è un semplice impiegato delle poste, e non ha nemmeno fatto il militare. È impazzito. Le pillole devono avergli mangiato il cervello.
Mi alzo di scatto dal pavimento e corro verso il salone, ma lui mi colpisce con un forte calcio alla schiena, scaraventandomi contro una parete.
«Dove credi di andare, troia? Dobbiamo ancora giocare noi due.»
Sono intontita. Ho sbattuto la testa contro la parete, ed ora tutto gira. Sono senza forze.
Lui mi prende in braccio e mi riporta in salone.
Vorrei gridare, vorrei agitarmi, ma non riesco a fare niente. Sono sotto shock.
Mi copre la bocca col nastro adesivo. Mi sento soffocare. Dal naso non riesco a respirare bene, a causa di tutto quel sangue che m’intasa il setto distrutto dalla sua testata. Cerco di strapparmi il nastro, ma lui mi colpisce con un pugno su un seno, spezzandomi il fiato.
Ho il petto in fiamme.
Mi ruota come se fossi un fuscello, e mi lega i polsi dietro la schiena.
Sto piangendo. Sto tremando. Ma lui non mostra nessuna pietà. È come se fosse impossessato. Non c’è traccia della persona che amavo.
«Eh, sì. Non puoi mai stare tranquillo. Voi ebrei siete abili a mentire e a nascondervi, questo va detto. Siete così abili che c’è d’aver paura» dice legandomi le caviglie.
Mi prende di peso e mi getta sul divano. La tv è ancora sintonizzata su quel maledettissimo film nazista. La luce delle immagini fa brillare le mie lacrime.
Giulio incomincia a far girare il nastro adesivo sul mio corpo e sulla poltrona, legandoci assieme.
Dopo qualche minuto finisce il nastro. Non importa. Sono legata così stretta al divano, che nemmeno un uragano riuscirebbe a dividerci.
Giulio guarda soddisfatto il risultato.
«Aspettami qui, verme ebreo. Torno subito» dice e scompare nel buio.
Cerco di liberarmi in qualche modo. Impossibile. Cerco di fare rumore, di attirare l’attenzione degli altri condomini.
Niente da fare.
Lui torna. Quando vedo cos’ha in mano urlo, ma le mie urla muoiono in gola.
Col sorriso sulle labbra, stappa le due bottiglie di alcol etilico ed inizia a versarmelo addosso. Il liquido brucia quando viene a contatto con la ferita.
Cerco di scuotere la testa per impedirgli di bagnarmi, ma non serve a niente. Dopo nemmeno un minuto sono completamente inzuppata d’alcool.
Giulio versa il liquido anche sul divano.
L’odore dell’alcool e così acuto che mi sento svenire. Il bastardo me lo impedisce schiaffeggiandomi.
«No, non lasciarci ancora. Devi assistere al verdetto.»
Tira fuori dalla tasca dei boxer la lista della spesa, e dice:
«Il Reich è fermamente convinto che la pena da applicare a sua moglie per tutti i reati che ha commesso, sia il forno crematorio.»
Giulio mi guarda sorridendo. Io mi agito come in preda all’elettricità.
«Merda! Dove lo trovo io un forno crematorio? Potrei farti a pezzi e metterti nel forno, ma non mi sembra la stessa cosa... Dovrò accontentarmi di questi» dice e mi mostra un pacchetto di fiammiferi.
A quella vista mi sembra d’impazzire.
Quel mostro fa finta di tremare e dice:
«Non c’è troppo freddo in questa stanza?»
Scuoto la testa, mi dimeno, ma non posso fermarlo. Accende un fiammifero e me lo lancia addosso.
«Bye, bye, puttana!»
Le fiamme mi sbranano come demoni cannibali.
Non posso fare nient’altro che bruciare e ascoltare le risate folli di mio marito.

Piergiorgio Pulisci