Una cosa alla volta

Dovevo andare al lavoro, ma ero maledettamente in ritardo. Non avevo fatto colazione. Dovevo ancora pisciare. Stavo leggendo su Scheletri i commenti al mio racconto. Gelostellato con un bel giro di parole diceva che era una merda. McNab che non era horror. Il bambino piangeva. Il telefono squillava. Qualcuno suonava ripetutamente il campanello. Alla tv un tipo che vendeva pentole aveva iniziato ad urlare. La caffettiera fischiava sul fornello. L’inquilino di sopra stava trapanando da un’ora come se lo pagassero per farlo. Il cane abbaiava. Mia madre s’era incastrata nella porta del bagno con la sedia a rotelle; smadonnava con quella sua dannata voce acuta. Fuori, un’orchestra di clacson mi allietava la giornata. I canarini cantavano come se niente fosse. Il gatto, appollaiato sopra il case del pc, mi soffiava. Un antifurto non la smetteva di strillare. La testa mi stava per esplodere.
Un aereo passò sopra la palazzina, e tutta la casa iniziò a vibrare. Il cane si mise paura, e mi pisciò sulle scarpe. Il bambino strillò più forte. L’inquilino di su prese a martellare. Mia madre aumentò la frequenza delle bestemmie. I clacson raddoppiarono. Il gatto ruttò. Il bastardo di sopra mollò una martellata così forte, che un vaso dietro di me cadde dal tavolo e si sfracellò per terra. Lo schianto mi fece sussultare, e mi pisciai nelle mutande. Imprecai. Il cane prese a leccare il suo piscio sopra le mie scarpe. Chi stava suonando il campanello iniziò anche a bussare con violenza. Io... Io mi arrabbiai. Mi arrabbiai malamente. Ma nell’arrabbiarmi, mi rimase un filo di razionalità.
“Fai le cose per bene. E se vuoi fare le cose per bene, fai una cosa alla volta.” Erano le parole del mio sergente istruttore. Quand’ero di leva me le aveva gridate per un anno intero. M’erano tornate in mente proprio in quel momento, e nella pazzia, decisi di ascoltare il sergente che mi gridava dentro la testa.
Se vuoi fare le cose per bene, fai una cosa alla volta. Una cosa alla volta; fu quello che feci. Aprii per bene la finestra. Inspirai smog e urla di clacson. M’inginocchiai e chiamai il cane. Lo accarezzai per qualche secondo, poi lo presi per il collare e lo lanciai fuori dalla finestra. Il gatto scattò via e si nascose. Richiusi la finestra. Strappai il filo del telefono. Andai in cucina e spensi il fornello. Presi in mano la caffettiera. Il tipo alla porta ora suonava il campanello, batteva sul legno e gridava. Andai in salone. Aprii la porta. Mi trovai di fronte il prete che doveva benedire la casa, e gli gettai il caffè in piena faccia. Richiusi la porta. Lasciai cadere la caffettiera per terra. Staccai la spina del televisore e lo presi in braccio. Andai in bagno. Mia madre mi gridò cosa cazzo stavo facendo con un televisore in braccio. Glielo mostrai coi fatti. Cercai di disincastrarla dalla porta prendendola a colpi in testa col televisore. Dopo una decina di colpi riuscii a disincastrarla. Presi la sedia a rotelle, su cui la mamma giaceva quasi inerme, e la guidai verso il salone. Aprii la porta. Raccolsi la caffettiera da terra e la lanciai contro il prete ustionato in viso che mi stava ostruendo il passaggio. Spinsi la sedia rotelle, con mia madre sopra, fuori dalla porta, e la scagliai lungo le scale. Il prete continuava a gridare. Mi stava dando sui nervi. Lo acchiappai per la collottola e lo trascinai dentro casa. Riaprii la finestra. Presi in braccio il prete e gli feci fare la fine del cane. Richiusi la finestra. Iniziai ad avanzare verso la porta d’ingresso. Mi fermai. Tornai indietro e riaprii la finestra. Non si sapeva mai. Afferrai la gabbia dei canarini. Lanciai un’occhiata interrogativa alla finestra. Preferii non ripetermi. Con la gabbia in mano andai in bagno. Sollevai la tavoletta. Aprii la gabbia dei canarini e afferrai in mano i due pennuti. Tentarono di beccarmi. Non ci riuscirono. Li gettai dentro il cesso e tirai l’acqua. Tirai giù la patta e pisciai fischiettando. Richiusi la patta e tornai in salone. Il tipo di su continuava a martellare. Aprii la porta e salii al piano di sopra. La porta dell’allegro carpentiere era aperta. Entrai. Lo vidi. Era di spalle, e in quel momento lasciò il martello e riprese ad usare il trapano. Mi tappai le orecchie e mi avvicinai a lui. Non si accorse di me. Afferrai il martello e glielo sbattei in testa con tutte le mie forze. Smise di trapanare. Tornai giù col martello in mano. Entrai in casa e feci il punto della situazione. Ero a buon punto. Il bambino non l’aveva ancora finita di piangere. Lo guardai. Guardai il martello che avevo in mano, poi di nuovo il bambino. Mi avvicinai a lui. D’improvviso il gatto schizzò fuori da sotto il seggiolone del bimbo. Doveva aver pensato che l’avessi scoperto. Riuscii ad acchiapparlo per la coda. Lo feci roteare per la stanza, reggendolo per la coda, per un minuto buono. Quando prese a vomitare, gli feci fare la fine del cane e del prete. Il bambino, vedendo il gatto volare, cominciò a ridere, ed indicare se stesso e poi la finestra. Indicai anch’io il bimbo, poi la finestra. Il bambino annuì. Avevo capito bene. Lo presi in braccio. Lo afferrai per le braccia e lo feci roteare per la stanza. All’inizio pareva divertirsi. Rideva. Dopo mezzo minuto era viola. Pensai che gli servisse una boccata d’aria fresca. Gli feci raggiungere il prete, il cane e il gatto. Fuori i clacson avevano smesso di suonare. Silenzio. Finalmente. Chiusi gli occhi e sorrisi. Andai in cucina e mi mangiai due croissant alla fragola. Mi lavai i denti e finii di vestirmi. Presi in mano la mia ventiquattrore ed aprii la porta. Fuori i suoi agenti mi puntavano addosso delle pistole. Gli chiesi se erano lì per accompagnarmi al lavoro. Mi risposero di sì, che avrebbero messo su le sirene per fare prima. Accettai con piacere e li seguii. In macchina mi chiesero gentilmente se mi andava di prendere un caffè con loro in Questura. Ci pensai su. Dissi di sì. Con tutto quel casino non ero riuscito nemmeno a prendermi un caffè. Una volta qui, ho incontrato lei, persona molto cortese, che mi ha chiesto educatamente se potevo raccontarle la mia mattinata.
Ecco, questo è più o meno tutto commissario. Spero di essere stato esaustivo. Ora, mi dispiace lasciarla, ma dovrei andare a lavoro.

Piergiorgio Pulisci