Quello che le mamme non dicono

- Mi fai piangere - continuava a ripetere l’uomo apparso improvvisamente nella camera di Marco.
La fioca luce irradiata dalla lampada con le sembianze di Winnie the Pooh posta sul comodino, che rimaneva accesa tutta la notte per tenere lontano l’uomo nero, illuminava lo strano figuro.
L’uomo zoppicando si avvicinava lentamente, sempre più, al suo letto.
Era quasi completamente nudo, ad eccezione delle parti intime coperte da degli stracci che un tempo dovevan essere stati di color bianco, ma che ormai avevano assunto uno strano colore nero/rosso.
Marco non aveva mai visto un uomo così magro.
Il corpo dello sconosciuto era ricoperto di cicatrici solo parzialmente rimarginate.
- Mi fai piangere - continuava a ripetere, ma Marco non lo conosceva anche se forse da qualche parte, in passato, lo aveva già visto.
Visto o non visto era certo di non avergli fatto mai nulla di male.
L’uomo si fermò dinnanzi al letto, vi poggiò le mani e si chinò in avanti.
- Mi fai piangere - ripeté.
Il volto di Marco era segnato dalle lacrime. - Anche tu mi fai piangere. Chi sei? Come sei entrato nella mia cameretta? Ora chiamo papà che ti da un bella sistemata!
- Tu fai piangere me, io farò piangere te! Sei un bimbo cattivo.
L’uomo portò il suo viso su quello di Marco, chinandosi, quasi sfiorandolo con la barba.

Da quella distanza il bambino poté notare che i peli in alcuni punti erano incollati tra loro da una strana sostanza rossa. Sangue. Marco era sicuro che fosse sangue.
- Sei un bambino cattivo. A me i bambini cattivi non piacciono.
L’alito dell’uomo era insopportabile. La puzza ricordava al ragazzino quella che saliva dalla fossa nella quale avevano fatto marcire il gatto randagio dopo averlo lapidato.
Lapidare quel gatto era stato divertente, ma vederlo marcire lo era stato ancor di più. Ma la puzza che saliva dalla fossa era nauseante, molto peggio dell’odore di cavoli lessi che saliva dalla cucina del guardiano che si trovava negli scantinati della scuola.
L’uomo si drizzò. Sollevò una mano. Nel palmo aperto spiccava una macchia rossa. Al bimbo sembrò l’occhio di Poliscemo.
L’occhio di Poliscemo lo aveva costruito il suo papà utilizzando una patata.
Era bastato tagliare il tubero in due parti, e poi con il coltello aveva scavato e fatto un’elissi con un cerchio dentro.
Aveva cosparso di inchiostro la patata, e aveva riprodotto su un foglio l’occhio.
L’occhio a Marco non faceva paura, ma poi papà gli aveva raccontato che quello era l’occhio di un gigante che mangiava gli uomini nella sua caverna. Un gigante mangiauomini è una cosa seria, una di quelle cose che fanno paura.
Nonostante la paura, Marco aveva riempito la casa di occhi di Poliscemo.
Quando la mamma aveva visto il divano bianco ricoperto di occhi blu si era arrabbiata e lo aveva definito un bambino cattivo.
Quello era il divano “buono”. Quello di pelle umana per quanto era costato, diceva papà. E papà ripeteva sempre che non era pelle di albanese, altrimenti non lo avrebbero pagato così tanto.
L’occhio di Poliscemo che spuntava dalla mano dell’uomo era rosso, non blu come quelli che stampava lui.
Pulsava. Trasudava sangue ed una sostanza bianca che ricordava la schiuma che la mamma produceva quando strofinava la buccia sul cetriolo appena tagliato.
La mano colpì il viso del ragazzino tremante. Marco era certo che sul suo volto fosse rimasto il timbrino di Poliscemo.
- Hai visto come è facile far piangere?
Ancora quella puzza di gatto putrefatto.
L’uomo barbuto portò le mani ai fianchi, così facendo sporse il petto in fuori.
Marco notò una strana macchia subito sotto il pettorale sinistro. Era una ferita. La ferita più grande presente su quel corpo martoriato.
Dalla lacerazione uscivano tanti vermi bianchi. Lui non era ancora bravo a contare, ma sapeva che erano più delle dita delle sue mani.
Molti di più.
I vermi si muovevano a scatti curvilinei. Erano come quel serpente del dvd di Aladino. Là c’era un fachiro con un flauto che faceva ballare il rettile nella cesta.
Marco era certo che quei vermi ballassero al ritmo del suo pianto. Era lui il fachiro piangente, ma i fachiri non piangono mai neanche se mangiano vetri. Lui non era un buon fachiro.
L’uomo staccò lo specchio dal muro, quello con su disegnato Topolino sorridente in braghe rosse e braccia larghe.
Con la mano libera l’uomo azzimato prese i capelli di Marco e avvicinò specchio e testa.
La faccia di Marco spuntava tra le braccia del ratto sorridente.
Marco non vide nessun occhio di Poliscemo sulla propria guancia ma bensì un grosso livido.
Senza alcun preavviso il barbuto strinse le proprie mani come in un applauso.
Lo specchio si frantumò sulla faccia di Marco. Il naso del bambino si spezzò. Microframmenti di vetro martoriarono il giovane viso.
Il bruciore era forte. Le lacrime salate che scorrevano sulle escoriazioni facevano aumentare il dolore.
La vista del bambino era annebbiata, l’uomo era sempre più un ombra.
- Ma guarda un po’, hai il visino tutto sporco, hai bisogno di una pulitina!
L’uomo emise una strisciante risata che non stonava affatto con le lacrime che continuavano a scendere ininterrottamente da suoi occhi.
Sfilò il cuscino da sotto la testa del bambino, e lo appoggiò sul viso del ragazzino.
- Così le macchie di sangue dovrebbero venir via... - disse l’aguzzino.
Marco cercava di gridare ma non riusciva. L’aria mancava nei suoi polmoni, il viso bruciava.
- Divertente questo gioco vero? - l’uomo aumentò la pressione - certo che lo sai che è divertente, lo hai fatto anche tu al tuo amichetto Gino. Ricordi come ridevi quando Francesco e Gianni lo tenevan per terra e tu eri seduto sullo zaino che avevi posato sulla sua faccia?
Tolse il cuscino. Il colorito del bambino era paonazzo.
- Mentre tu ridevi quel giorno io piangevo, ho pianto ogni volta che tu hai compiuto un gesto cattivo.
L’uomo sollevò delicatamente la testa del bambino e vi ci pose sotto il cuscino.
Con la mano iniziò a fare delle leggere carezze sul viso che lasciavano la scia di sangue prodotta dall’occhio di Poliscemo.
- Ora ho finito, puoi dormire tranquillo.
Lo baciò dolcemente sulla fronte.
L’aria entrava pian piano nei piccoli polmoni. Le ferite si stavano rimarginando velocemente.
Il dolore era quasi del tutto passato.
L’uomo era ora di spalle.
Marco per la prima volta vide le innumerevoli cicatrici sulla sua schiena. Sembravano le righe disegnate sulle carte stradali del papà. Durante i viaggi lui si sedeva d’avanti e con il dito seguiva quelle linee colorate sulla cartina avvisando papà quando girare. Anche se papà non girava mai dove diceva lui, arrivavano sempre a destinazione; papà era un autista fortunato.
L’uomo zoppicando giunse a contatto con la parete posta di fronte al letto, fece un leggero piegamento sulle gambe e spiccò un salto.
Solo in quel momento Marco, la cui vista era tornata miracolosamente sana, si rese conto che il crocifisso era vuoto.
L’uomo sparì e il crocifisso non fu più vuoto.
La mamma glielo diceva sempre: - Quando fai il cattivo fai piangere Gesù -, ma lui non le aveva mai creduto molto.
E poi, la mamma non glielo aveva mica detto che anche Gesù si stanca di porgere l’altra guancia... ma forse... anche lei questo non lo sapeva.

G.F. Cassatella