L'ansa del Po

Lavorava come parrucchiere “Da Felicìta”. Erano diventati soci, lui e Felicìta, ma l’insegna era rimasta la stessa e anche il modo di trattarlo come un dipendente. Lui non ci faceva troppo caso, lavoravano insieme da 10 anni ed era avvezzo ai suoi modi.
Quel lunedì andò a gettare la lenza nel Po.
Lo faceva spesso negli ultimi mesi, il lunedì se ne andava al fiume.
Sabato sera aveva di nuovo litigato con Maria, ormai litigavano spesso, quella donna lo faceva impazzire, così era nervoso e preoccupato.
Lui l’amava, di questo era certo. Ma lei?
Era di pessimo umore e doveva pensare, per questo andò al fiume, solo più distante delle altre volte perché gli occorreva un nuovo punto di vista e scelse un’ansa del fiume dove non era mai stato.
Quando un uomo ha qualcosa di importante su cui riflettere, la cosa migliore è andare a pesca. Lo aveva imparato da suo padre: non importava che prendesse un qualche pesce, ma che stesse lì, vicino all’acqua.
Lo aveva compreso a poco a poco, sottopelle. L’acqua aveva la capacità di decantare i pensieri da polveri e incrostazioni e di restituirli puri.
Così andò a gettare la lenza nel Po.
Doveva far capire a Maria che non era un rammollito qualsiasi, ma un uomo. Doveva rispettarlo. Doveva una volta per tutte spiegargli che cosa c’era tra loro. Con esattezza e senza giri di parole, senza “però”, “non so”, “aspettiamo”. Era stanco dei suoi giochetti. Una sera era tutta sdolcinata e smaniosa, l’altra pareva non conoscerlo. Delle due, l’una: la relazione tra loro era seria o era solo un amore di passaggio. Tanto per fare.
Voleva che almeno una volta gli dicesse che lo aveva sognato. Lui le telefonava appena sveglio quando accadeva, e le raccontava il sogno con precisione. Dov’erano, con chi, cosa facevano, cosa diceva lei e cosa lui. A volte facevano l’amore e almeno in sogno lo facevano con tutti i crismi della passione. Nella realtà lei lo esasperava con un tira e molla doloroso.
Serrò le mascelle e fissò il punto dove la lenza entrava in acqua.
“Puttana”.
Il morso allo stomaco ultimamente lo afferrava più a fondo. Voleva sapere e allo stesso tempo temeva la risposta.
Non era mai andata in negozio da lui. Avrebbe voluto che lo vedesse al lavoro. Era bravo con le forbici. Un giorno avrebbe aperto un negozio suo e lo avrebbe chiamato “Andrea Mani di forbice”. Ma non ci era mai andata. Solo una sera, che aveva dimenticato una cosa e allora si erano fermati prima di andare al cinema, si era fermata sulla soglia. Lui aveva acceso le luci e le aveva detto di entrare, le avrebbe acconciato i capelli. Disse di no, che avrebbero fatto tardi e voleva andare. Le avrebbe messo un riflessante verde. Almeno quella volta aveva riso. Il suo lavoro, i suoi modi, le sue battute, non aveva per lui nessuna stima. Lo capiva che si annoiava.
E allora perché lo cercava?
Perché accettava di uscire? Ormai erano quattro mesi, non si esce così tanto con un uomo che non ti interessa. Il punto era questo.
Le portava dei fiori, ogni volta che uscivano per andare a cena. Sorrideva, lo baciava, gli diceva “grazie, sono bellissimi” e poi aggiungeva “non dovevi. Non portarli più” e li lasciava gettati sul tavolo.
Si chiedeva se fossero i fiori in generale a non piacerle o i suoi.
Perché avrebbe cambiato fiorista, confezione, fiori.
A lui piaceva, faceva parte del rito. Gli piaceva prepararsi con cura, spazzolare le scarpe, la doccia, radersi, il dopobarba, la cravatta in tono, attraversare la città per entrare proprio in quel certo negozio di fiori, scegliere i più belli e discutere con complicità con la commessa su quali abbinare, sul colore della retina, del nastro. I mazzi più spettacolari della città. Solo il biglietto recitava la stessa frase: dei fiori per un fiore.
Era il suo modo per dirle che non era solo una scopata, lei era importante.
Da che avevano fatto l’amore quella prima sera non riusciva a pensare ad altro che alle sue labbra e alle sue cosce.
Sospirò.
All’improvviso la lenza si tese.
Ancora confuso per la fantasia diede uno strattone alla canna da pesca.
Quella cosa si sollevò appena dall’acqua. La tirò a riva tra l’incredulo e lo spaventato. Forse era finto, un giocattolo. Doveva essere finto, ma non riusciva a guardarlo. No, non era finto, lo prese con le mani, non era finto. Lo gettò a terra e si strofinò le mani bagnate sui pantaloni. E cercando di risalire la riva, scivolò e gettò un urlo. Fissò quel neonato a brandelli e senza occhi, temendo che si fosse mosso. Quindi vomitò e vomitò e corse alla macchina girandosi ogni tanto come se lo stessero inseguendo. Corse abbandonando su quel tratto di torrente canna, esche, borsa e 10 anni di vita.
Dopo molti mesi tra notti insonni e incubi, curati con sonniferi e tranquillanti, portò un mazzo di fiori alla sua tomba.
Gli incubi diminuirono un poco, e anche il timore che gli procurava la vista di un neonato.
Non andò più a pescare e si tenne alla larga da Maria.
A tutt’oggi non ha figli.

Emanuela Giorgini