Delirio di luna piena

Luna piena.
I suoi occhi indugiarono un istante fuori dalla piccola finestra, poi tornarono nuovamente al centro della stanza, dove era stato sistemato un logoro tavolino di legno. Le gambe, stanche e pesanti come tronchi di querce secolari, lo trascinarono qualche passo avanti. Sapeva che non era lui a controllarne i movimenti, ma non ci faceva più caso ormai da tanto tempo, da quando aveva capito che la creatura che abitava il suo corpo era molto, molto potente.
Si girò per controllare che non ci fosse nessuno, poi allungò il braccio tremante sotto il tavolo: avvolti in un foglio di giornale e tenuti assieme con abbondante nastro adesivo, erano lì nascosti un flaconcino di stimolanti ed un affilato coltello da cucina. Non sapeva a cosa servissero, ma gli andava bene così. Ultimamente erano tante - forse troppe - le cose che non sapeva. Perché si trovava lì? Da quanto tempo era rinchiuso in quella cella umida e angusta? Non ne aveva la più pallida idea. Diavolo, a volte non ricordava nemmeno il proprio nome! Una delle pochissime informazioni che la sua mente era in grado di percepire era la consapevolezza della grandiosità quasi divina della creatura che lo stava manovrando, ribadita continuamente da voci e urla interiori, come striduli echi di un antico e glorioso passato. Qualche volta si sforzava di ricordare, di squarciare il velo di ombre che sembrava avvolgergli l’intera coscienza, ma ad ogni tentativo la testa pareva scoppiargli dal dolore, pulsando nelle tempie al ritmo dei battiti del cuore; e più si concentrava nell’impresa di rivangare gli anni trascorsi, più era costretto sul pavimento a contorcersi in preda ad una sofferenza disumana.
All’inizio pensava di essere pazzo - e forse lo era veramente - ma col tempo si era convinto che la creatura (se di una creatura si trattava) esisteva davvero e lui ne era in qualche modo legato. Soprattutto negli ultimi giorni, questo vincolo si era ulteriormente rafforzato in corrispondenza dell’intensificarsi delle voci, sempre più suadenti e quasi ipnotiche, che lo avevano reso partecipe di un altro importante messaggio: doveva fuggire.

Andarsene da quel luogo scuro e silenzioso perché... già, perché? Ennesima domanda senza risposta. Comunque era sicuro che fosse la cosa più giusta da fare. Solo questo aveva importanza. Il resto apparteneva ad un passato sprofondato ormai nell’oblio e che molto difficilmente sarebbe potuto riemergere.
Senza quasi accorgersi di quello che stava facendo, svitò il tappo del flaconcino e fece scivolare nel palmo della mano un paio di pastiglie. Le inghiottì assaporandone il retrogusto amarognolo, poi spinse la testa all’indietro di scatto, sussultando rumorosamente. Quando rialzò la testa, i suoi occhi erano lucidi e venati da striature rossastre. Si portò una mano alla fronte per scostarsi una ciocca di capelli e la sentì scottare... Cristo!, gli sembrava di andare a fuoco! Stava anche sudando copiosamente e si rese conto che mai in vita sua aveva provato una sensazione così intensa ed appagante e il suo corpo fu per un attimo scosso da brividi di piacere. Rise tra sé e sé. Non poteva certo farsi sentire. A quell’ora avrebbe dovuto essere a letto già da un bel pezzo.
Si infilò il tubetto di stimolanti in un calzino, fece roteare il collo finché non lo sentì scricchiolare, poi controllò per l’ultima volta l’orologio: mezzanotte. L’ora delle streghe, si disse, soffocando a stento un’altra risata.
Senza perdere altro tempo, con il coltello stretto saldamente in pugno, aprì la porta badando a non far cigolare i cardini. Una rapida occhiata a destra e a sinistra, poi sgattaiolò fuori nel lungo corridoio, lasciandosi alle spalle il bagliore sfuocato della luna nella stanza.

 

L’aria della notte, fredda e tagliente come una lama, lo investì con ferocia, facendolo trasalire. Lo spettrale silenzio che sembrava avvolgerlo come un sudario non faceva altro che aumentare il suo stato di confusione, in cui colori e suoni continuavano a rimbalzare e rincorrersi nella sua testa come immagini impazzite in una pellicola di un vecchio film, fino ad annebbiargli la mente.
Come diavolo era finito là fuori, solo e circondato dal nulla più assoluto? Vuoto totale. Inconsapevolmente i suoi occhi scivolarono sulla mano destra, abbandonata lungo il fianco quasi fosse un fardello dimenticato, senza alcuna importanza. Stringeva il coltello - lo stesso coltello che la creatura gli aveva fatto prendere - e la lama era ricoperta di sangue. Gocce di liquido rossastro si staccavano ad intervalli regolari dalla punta affilata rivolta all’ingiù, per andare a formare una piccola pozza densa vicino ai suoi piedi. Cercò di ricordare cosa fosse successo, di ripercorrere i pochi minuti precedenti - gli sembrava fossero passati anni, forse secoli - ma l’unica risposta che giungeva alle sue orecchie era il monotono silenzio della luna intervallato dal suono del sangue che si rituffa nel sangue e la sola cosa che riusciva a vedere era il buio... molto più buio della notte che gli stava intorno.
Poi, quando girò la testa
Non sei tu... è Lei che lo vuole... vuole che ti giri perché devi vedere... DEVI...
finalmente capì, anche se avrebbe preferito non farlo. Capì che cosa aveva fatto, perché tutto era così maledettamente silenzioso e anche come mai si trovava lì. Si ricordò chi era e appena tutto gli fu chiaro maledisse sé stesso e l’Essere che lo aveva manovrato come un burattino per così tanto tempo. Perché? si chiese. Ma, nell’abisso della sua coscienza, non trovò alcuna risposta...
Pochi passi dietro di lui, accasciato alla parete della prigione
È veramente una prigione? Dio mio, non lo so, non lo so proprio!
il guardiano sembrava fissarlo con occhi vuoti ed inespressivi, ma solo quando la sua testa si piegò in modo innaturale di lato rivelando il profondo taglio sul collo, realizzò che era morto e che era stato lui ad ucciderlo.
Lo fissò per un attimo, incredulo, come se il mondo gli fosse crollato addosso con il preciso intento di seppellirlo. Nella sua mente iniziarono a materializzarsi pensieri e immagini che, sbiadite come foto vecchie cent’anni, presero a volteggiargli davanti. Probabilmente, durante la sua fuga maledetta aveva ucciso altre guardie; probabilmente le aveva sgozzate tute quante con ferocia disumana, provando persino piacere nel farlo; probabilmente, all’interno dell’edificio, decine di occhi spenti ma nello stesso tempo lucenti e vitrei come biglie erano fissi nell’oscurità; probabilmente...
... scosse la testa per scacciare il pensiero. Non voleva crederci, ma sapeva benissimo che era così, ormai ne era più che sicuro.
Alzò il viso in direzione della luna, impassibile e silenziosa. “Cosa mi hai fatto fare?”, sibilò a denti stretti. “COSA MI HAI FATTO FARE?”, ripeté con più impeto, rivolto all’ignota creatura che si era impadronita di lui e che ora sembrava averlo abbandonato. Gli occhi si stavano bagnando di lacrime, quando gli parve di vedere la luna muoversi. Si asciugò con il dorso della mano e tornò a scrutare l’astro, scolpito nel cielo. Non era un’allucinazione, si stava muovendo veramente: uno spostamento dapprima impercettibile, poi sempre più evidente, come una folle danza di anime. E non era tutto: stava cambiando. Plasmandosi come creta, stava assumendo sembianze quasi umane, ma la trasformazione non fece in tempo a compiersi del tutto che già stava mutando in un qualcos’altro. Adesso era un ghigno diabolico, con lamette di rasoio al posto dei denti, pronto a sbranarlo... ora era una palla infuocata che si faceva sempre più grande ed incandescente (riusciva a percepirne distintamente il calore sulla pelle)... ora, invece, era diventata una mano, enorme e pelosa... no, un artiglio, e si stava staccando dal cielo, aprendosi e chiudendosi e si stava avvicinando a lui, sempre più vicino, sempre più vicino...
Si portò le mani davanti al volto per difendersi, inginocchiandosi per terra. “No, no, vai via, lasciami stare, ti prego... ti pregoooo!”, urlò contro la cosa informe che ormai si trovava a pochi centimetri dal suo viso. “No, NOOOOOO!”... ma l’artiglio era sempre più vicino e si stava chiudendo un’ultima volta su di lui per portarselo via con sé. Per sempre.

 

... Spalancò gli occhi all’improvviso e la prima cosa di cui si accorse fu di essere immerso in un bagno di sudore gelido. Avrebbe voluto scostarsi una ciocca di capelli che gli si era incollata davanti agli occhi, ma le lunghe maniche della camicia che gli avevano fatto indossare erano saldamente strette dietro alla schiena con resistenti lacci di cuoio, impedendogli ogni movimento. Gridò tutta la sua disperazione alla stanza vuota, poi iniziò a prendere a testate le pareti imbottite, con una violenza inaudita. Dai lati della bocca presero a sgorgare sottili rivoli di saliva densa e biancastra.
Infine si lasciò cadere in un angolo, abbassò mestamente la testa e pianse.

 

Fuori, nel cielo di quella notte senza fine, la luna, con i suoi riflessi argentati, sembrava la regina del mondo. Lui non poteva certo vederla, ma si chiese se un giorno ci sarebbe più riuscito...

Paolo Azzarello