A te che leggi

Scrivere ancora di ciò che mi accade quotidianamente da sei mesi a questa parte non fa altro che farmi ricorrere immancabilmente alla mia pillola bianca preferita. Una scheggia bianca minuscola capace di rilassarmi e poter continuare. Non che pensarci ogni secondo mi faccia star meglio o non mi provochi dannati tremori ma il pensiero che qualcuno possa solo credermi mi terrorizza ancora più dei tanti che mi hanno immediatamente bollato come demente.

 

Non so quando con precisione ma durante il carnevale scorso ho riconosciuto fra le centinaia di persone festanti per le strade del paese sei persone che credevo morte quattordici anni fa quando ancora erano bambini. Quando eravamo bambini.

 

Dico credevo, perché a questo punto non è bastato essere stato l’unico uscito indenne dal pozzo della Sticciola sul finire del campo di granturco nonché testimone oculare di quel giorno d’estate.

 

Ricordo, o almeno credo, i corpi di tre di loro torti in maniera innaturale dopo la caduta da forse quattro, sei metri. Rimasero fermi e immobili mente fissavano il nulla. Mi ricordo che caddi io stesso sul quarto, atterrato sui primi, aprendo con il bastone di legno uno squarcio che dall’incavo dell’occhio si ramificava come un ramo secco fin dietro il cranio. Degli altri due non ricordo molto a dire il vero. Ma li sentii atterrare su qualcosa di duro, molto duro alle mie spalle e non ebbi il coraggio di voltarmi già tanto era il dolore per la caduta, seppure attutita, e l’orrore per quel poveretto che avevo infilato.

Ricordo che la terra si aprì sotto i nostri piedi ingoiandoci ad uno ad uno. I primi tre furono il boccone principale come a soddisfare un senso di fame atavico, poi l’altro fu ingurgitato con più moderazione. Poi toccò a me. Mi viene da pensare che risultai indigesto e mi risputò fuori. Gli altri due forse erano troppo duri e quindi pensò bene di ammorbidirli frollandoli.

 

Ah, ricordo bene anche i funerali con il codazzo di lacrime e imprecazioni. E gli occhi cattivi dei nostri padri che ci spinsero nella gola di madre terra...

 

Una cosa è certa. Dopo quattordici anni, possono dei corpi che hanno subito tale trattamento rimanere bambini e tornare a festeggiare per le vie del paese? No, non possono. È evidente.

 

Quindi semplicemente reclamano la mia presenza per completare l’opera che madre terra aveva in serbo per noi sette. In questi sei mesi sono stati una presenza prima terrificante ora assordante.

 

Voglio lasciare questa lettera affinché ci sia una possibilità che qualcuno la legga. Non i miei familiari che trovandola penserebbero ad un suicidio. Poveretto era così colpito da quello che gli capitò, che passerebbe quasi come un normale completamente per la mia vita tormentata. La metterò in un sacchetto di plastica e la getterò nel torrente che squarcia a metà questa frazione dimenticata dalla pietà. Solo così posso essere certo che sarà qualcuno che potrà capire cosa capita ogni tanto su questo mondo. La troverà un giorno per caso.

 

Dunque a questo punto mi rivolgerò direttamente a te che leggi e che sei arrivato fino a questo punto. Sappi che ora ritornerò in quel posto dove c’è un pozzo, delimitato da un recinto in ferro sormontato da una corona di filo spinato. Non ci vado da solo. Insieme a me ci sono quei poveretti che mi aspettano con pazienza. Mi accompagneranno stasera dopo il tramonto quando la luce diventa scura e nessuno nel paese si interesserà di un gruppo di esuli da questa terra. Li ho qui tutti e sei davanti a me in una fila oscura di corpi martoriati dalla permanenza in chissà quale luogo dimenticato. Riconosco la ferita procurata dal mio bastone, guardo le innaturali posture dei tre caduti per primi che ora sembrano come imprigionati in una rete da pesca; intravedo quello che rimane delle sembianze degli altri due e soprattutto mi è chiaro come tratta la terra i suoi figli. Quelli venuti male. Quelli con la sindrome del 21° parallelo la chiamo io.

 

Sono le diciotto di martedì 23 gennaio 1996. I miei ultimi rantoli su questa terra. Ho paura. Non deve essere un bel posto quello in cui finirò.

Ele Amsi