Nell'ascensore

Cerco di dominare l’emozione che pervade la mia mente.
Stringo i pugni sino a far sbiancare le dita dalla pressione proposta.
I denti serrati in modo isterico, sino a deformare i lineamenti del mio volto.
Non voglio assolutamente accettare quello che sta accadendo.
La mia immagine riflessa nello specchio rivela il mio reale stato d’animo.
L’ansia governa la situazione. Non so per quanto tempo ancora potrò sopportare questo stato.
Improvvisamente la luce viene a mancare. Lo sconforto infine domina il contesto nel quale mi ritrovo.
L’oscurità mi avvolge così come il silenzio. Sento lagnare il mio stomaco avido di cibo, non posso biasimarlo, sono ormai tre giorni che non consumo viveri.
Quel fetido odore pungente, ripugnante continua ogni giorno a provocarmi tremendi spasmi sino a vomitare bile.
Avverto l’esile ronzio della corrente che cerca di ripresentarsi. La luce ritorna.
Ho sete, la lingua è secca come un banco di sabbia. Il bottone che continuo a succhiare, non può dissetarmi producendo abbondante quantità di saliva.
Chiudo gli occhi e mi abbandono. Con la schiena appoggiata a quella fredda parete ferrosa, scivolo ripiegandomi sulle ginocchia.
Riapro gli occhi e scandaglio minuziosamente oltre la fessura. Non vedo nulla.
Per l’ennesima volta tento di aprire le porte ma non v’è possibilità alcuna.
Solo la luce d’emergenza funziona. A tratti, ma funziona.
Porto le dita agli occhi e le stringo sino a causare una fortissima pressione sulle palpebre facendo sortire qualche lacrima.
Penso a quanto sono stato stupido ad addentrarmi in questo vecchio appartamento abbandonato, con questi idioti dei miei amici, soprattutto a quanto siamo stati incoscienti a ciondolarci in questo maledetto ascensore.
Rammento ancora come fosse adesso quel secco rumore metallico.
Uno strepito imprevisto.
Il cavo dell’ascensore non ha retto all’oscillazione e si è tranciato di netto.
I freni di emergenza, molto probabilmente erano ossidati visto che questo appartamento non è mai stato utilizzato, ma è stato lasciato a morire senza sfruttarlo, per questo la sua rapida discesa non ha mai diminuito di intensità, anzi raddoppiava ogni secondo di più, fino allo schianto successivo della cabina contro la pavimentazione, dopo una caduta di otto piani.
Sono chiuso qui dentro da tre giorni.
Penso. Non serve a nulla. Ho provato migliaia di volte a forzare le porte, a premere i tasti dal pannello di comando, ma non funzionano.
Il cellulare non prende, nemmeno quello dei miei amici.
L’unica cosa che non manca è l’aria.
Un pianto sfrenato mi invade.
Ho fame. Una fame tremenda, per non parlare della sete.
Riosservo la mia figura allo specchio. Per quanto tempo potrò resistere ancora? Senza cibo nè acqua... mi verranno mai a cercare?
Ho fame.
Guardo i corpi dei miei due amici distesi a terra.
Sono distesi uno ammassato su quello dell’altro.
Uno dei due, ha una mano ripiegata all’indietro, il polso probabilmente è spezzato.
Hanno il viso pallido come la cera, con chiazze bluastre oltre gli zigomi a scendere verso il collo.
Uno di loro ha gli occhi spalancati. Sembra guardarmi. Tre giorni che mi guarda.
Chiazze del mio vomito su di loro, piscio e feci nell’angolo sinistro dell’ascensore.
L’odore è a dir poco stomachevole.
Ho fame. Una fame pazzesca.
La luce salta un’altra volta. Passano diversi minuti prima di tornare.
Quando l’interno della cabina si illumina, non oso riflettermi nello specchio.
Non penso sia gradevole osservare la mia immagine intenta a cibarsi dei corpi dei miei amici.

Emanuele Mattana