I
    "Del castello non dirò il nome, eccetto la sua iniziale: M. Così farò per ogni
    altro luogo, poiché agli animi virtuosi e nobili basterà ciò che racconto per piangere
    il nostro triste destino. Resteranno geografie vaghe per gli spiriti meschini, insensibili
    ai richiami del cuore, né piede profano potrà calpestare le nostre silenziose sepolture.
    All'estremo lembo del Marchesato, il castello di M. domina la pianura con le sue mura
    merlate. Sul lato ad oriente sorge la cappella gentilizia, sul lato ad occidente si stende
    il giardino, fitto di alberi, umido ed ombroso.
    Qui sono io, ombra tra le ombre, condannata ad un eterno presente. Questo è il destino
    dei morti!
    Ricordo le soste sotto i rami secolari, leggendo le gesta di nobili cavalieri, il cuore
    palpitante di emozione per le loro storie d'amore.
    Tra i sentieri verdi di muschio ho conosciuto l'amore, ma non ho mai provato la gioia di
    giacere con un uomo. Ho amato di un amore tenero e casto, ho amato un uomo di un altro
    paese e di un'altra religione. Questo fu causa dell'ira di mio padre e dei suoi
    provvedimenti.
    Così, senza essere toccata dalla grazia del Signore, che aprisse il mio cuore alla
    vocazione, fui costretta a prendere i voti nel monastero delle Clarisse di S.
    Ricordo quei giorni e l'orrore della guerra imminente. Le bande armagnacche compivano
    sanguinose scorrerie in tutta la pianura. Al soldo del comune di C., muovevano in armi
    verso il Marchesato.
    Il conte mio padre era un cavaliere, addestrato fin dall'infanzia al mestiere di soldato.
    Da generazioni gli eredi maschi della nostra casata servivano in armi la famiglia dei
    nostri potenti cugini, i marchesi di S.
    Ricordo il suo bacio quando partì. Forse l'ultimo bacio dato con l'amore di un padre.
    Io che ti fui figlia, ti chiedo di raccontare le gesta di quei giorni, che suonano a
    gloria delle leggi della cavalleria, e gli accadimenti che seguirono, che suonano ad onta
    delle leggi della pietà e dell'amore.
    Io ti chiamo, conte Oddone di M!"
II
    "La battaglia fu sanguinosa, come molte in quegli anni. Il marchese di S. aveva
    schierato i suoi armati lungo una linea. Davanti stavano i fanti, su due file, la prima in
    ginocchio e la seconda in piedi. Reggevano gli scudi e, tra gli scudi, avevano inclinato
    avanti alabarde e corsesche, formando un muro impenetrabile. Dietro stavano i balestrieri
    che lanciavano i loro bolzoni. Ricaricavano abbassandosi dietro gli scudi, che avevano
    piantato nel terreno. Io, con i miei cavalieri, attaccavo sul fianco.
    Gli Armagnacchi sono soldataglie indisciplinate, ma feroci. Si erano disposti in un rozzo
    triangolo, offrendo agli attacchi due fianchi serrati, protetti dagli scudi ed irti di
    falcioni ricurvi ed affilati. Al centro stavano i balestrieri che lanciavano i loro
    bolzoni.
    I bolzoni si incrociavano nell'aria e ricadevano sugli opposti schieramenti.
    I fanti di ambo le parti indossavano elmi leggeri, cotte di anelli ritorti e corsaletti di
    cuoio trapunto. I bolzoni attraversavano il ferro leggero degli elmi, il cuoio, le cotte e
    si conficcavano nella carne, straziandola.
    Io ed i miei cavalieri indossavamo armature complete ed anche i nostri cavalli erano
    protetti da barde di cuoio e metallo.
    Quando nelle file nemiche si apriva un varco, vi penetravamo colpendo con le spade i fanti
    sotto di noi. Sentivo il contraccolpo delle ossa spezzate vibrare nelle lama e risalirmi
    il braccio fino alla spalla.
    Il campo di battaglia era una babele di ordini gridati, di gemiti dei feriti e di
    bestemmie delle soldataglie.
    Quando i fanti cercavano di richiudersi, li schiantavamo con il peso dei nostri cavalli e
    continuavamo la mischia.
    Allora vidi l'arciere: portava un arco lungo e scagliava una freccia verso di me. La
    freccia mi colpì come una vampa di calore, penetrando, tra la giuntura del guardacollo ed
    il pettorale, fino al polmone.
    Sentii la spada farsi pesante, il sangue bloccarmi il respiro e persi i sensi.
    Non ho il cuore di continuare! Vedo tutto con occhi diversi, oggi che il velo dei miei
    pregiudizi si è aperto. Vi chiedo di perdonarmi, tu figlia mia e tu, che ascolti a capo
    chino nell'ombra."
III 
    "Io fui medico della scuola di Baghdad, la più prestigiosa d'Oriente, fiorita sotto
    il regno d'oro del califfo Harun Ar-Raschid. Prigioniero al tempo della crociata venni
    portato in terra d'Occidente. Qui la mia arte raggiunse presto grande fama, nonostante la
    condizione di prigioniero.
    Il conte stava morendo, nessun medico cristiano, cerusico o barbiere-chirurgo avrebbe
    potuto salvarlo. Solo io, forse, potevo. Ricordo il loro stupore quando aprii la cassetta
    intarsiata e videro i miei bisturi temprati, i divaricatori e le pinze emostatiche, gli
    aghi e gli specilli di metallo prezioso. Gli anestetici, i disinfettanti, le pozioni
    segrete erano riposte in ampolle di cristallo sottile.
    Operai a lungo, estrassi la punta di freccia, bloccai l'emorragia ripristinando la
    delicata trama delle circolazione sanguigna. Quando mi apprestavo a ricucire la ferita, il
    conte, già sveglio, mi ringraziò.
    Giurò, sul suo onore di cavaliere, che mai sarebbe venuto meno alla riconoscenza e che
    nel suo castello mi sarebbe stata concessa una vita agiata e riverita.
    Nel giardino del castello di M. conobbi sua figlia e l'amore, che prese i nostri cuori sin
    dal primo incontro. La nostra relazione avrebbe dovuto rimanere segreta, ma diventammo ben
    presto imprudenti, tanto era il desiderio di stare insieme. Le nostre labbra erano unite
    in un tenero bacio quando il conte ed i suoi capitani ci sorpresero.
    Venne proposto di uccidermi subito, ma il conte non volle, vincolato dal suo giuramento.
    Fu evidente che la sua decisione sarebbe stata ben diversa e dolorosa per tutti.
    Meglio sarebbe stato che morissi allora, gettato in un oscuro pozzo del castello!
    Non potendo colpire me, il conte allontanò sua figlia, rinchiudendola nel monastero delle
    Clarisse di S. Io rimasi prigioniero nelle mie stanze. Dopo poco tempo fui informato che
    colei che amavo più di ogni altra era stata costretta a prendere i voti.
    Il dolore per la lontananza prese a consumare entrambi e presto ricevetti notizia della
    sua morte. Forse la mia arte medica avrebbe potuto salvarla, ma non avevo saputo della sua
    malattia. Allora provai un senso di completa inutilità per quanto ero e conoscevo, salii
    la torre del castello e mi gettai nel vuoto.
    Che l'unico Dio ci accolga tutti! Del nostro amore oggi non resta nulla, solo le parole
    che scrissi sul margine di un libro."
"Triste non essere sparviero astore,
    dalla mia dolce amata potrei volare,
    il suo corpo abbraccerei,
    la sua bocca coprirei di baci."