La narratrice di storie

Tilde si aggiustò gli occhiali sul naso adunco, poi fece scorrere gli occhi, grandi e scuri, sulla platea silenziosa.
Un fremito d'eccitazione l'attraversò, sospingendole parole impazienti su dalla gola.
Fece schioccare la lingua, quindi si accomodò sulla poltrona dalla stinta fantasia floreale.
Osservò con soddisfazione i pesanti scuri di legno accostati e annuì nella penombra diffusa della stanza.
Un bisbigliare nervoso riempì il silenzio.
Abbassò la voce fino a che dalla gola non le uscì un sibilo raschiante e tremulo, quindi iniziò a parlare.
<<Oggi vi racconterò la storia di sei bambini scomparsi misteriosamente in un bosco. In una casa, in quel bosco, abitava una vecchia.>>
Tilde si sporse sulla poltrona e costrinse i muscoli del viso a contrarsi fino a ricavare una maschera rugosa, quindi digrignò i pochi denti rimasti in un ghigno animalesco, facendo ben attenzione a mostrare le gengive raggrinzite e umide di saliva.
Riprese a parlare, accompagnando l'attacco con un rantolo nella voce.
Non aveva dormito la notte precedente per preparare la storia, ma sapeva che ne era valsa la pena.
Aveva passato parecchie notti insonni da quando aveva scoperto quel nuovo passatempo, ma, in compenso, i suoi monotoni pomeriggi di vedova ottantenne e senza prole ne avevano beneficiato in maniera prodigiosa.
La mattina si alzava ansiosa di sbrigare tutte le faccende e poi, con impazienza, contava i minuti che la dividevano dall'arrivo dei suoi piccoli ospiti.
E pensare che era iniziato tutto per caso, a metà giugno, quando in una giornata afosa era riuscita a beccare uno di quei piccoli schifosi che schiamazzavano all'estremità del suo giardino.
Era dall'inizio dell'estate che le rovinavano il sonnellino pomeridiano rincorrendosi lungo la collina, gridando come ossessi e intrufolandosi di soppiatto nella sua proprietà per bere di nascosto l'acqua della fontanella, rispondendo con sberleffi intollerabili alle sue sfuriate.
Ma poi ne aveva beccato uno e le cose erano cambiate, oh sì.
Doveva essere inciampato nel tubo di gomma che usava per annaffiare il piccolo orto e poi, forse, aveva battuto il ginocchio nella vasca di raccolta della fontana.

Tilde l'aveva visto a terra, stringersi la ferita sanguinante, mentre frignava disperato.
Allora, affrontando la canicola pomeridiana, era piombata come un falco sulla preda, allungando le lunghe mani ossute verso il fagotto disteso sull'erba secca.
All'improvviso, da dietro le siepi, erano sbucati tutti gli altri, accorsi come un branco attorno al capo ferito.
E così li aveva guardati negli occhi, uno per uno, i bambini.
Si era sorpresa del fatto che, visti da vicino, apparissero così piccoli, disorientati e spaventati alla vista del sangue.
Allora qualcosa dentro Tilde si era mosso.
Aveva visto una crepa in quel muro d'arrogante e chiassosa marmaglia infantile, un pertugio su cui far leva per creare una scalfittura più grande e sottomettere il nemico.
Uno spiraglio per vendicarsi delle emicranie, del bruciore di stomaco e del suo povero cespuglio di rose devastato dal pallone di quei vandali col moccolo al naso.
Quel pomeriggio Tilde aveva raccolto da terra il bambino sanguinante e l'aveva portato in casa, medicandolo con cura, mentre gli altri cinque se la spassavano nel fresco del soggiorno con una generosa caraffa di tè alla pesca.
Da quel giorno Tilde aveva capito che se non poteva liberarsi di loro, e di chiunque altro in futuro avesse scelto la morbida sinuosità della sua collina per giocare all'aria aperta, tanto valeva cambiare tattica, rinunciando a grida e gesti isterici il cui unico risultato sino allora era stato quello di causarle un'ulcera.
Tilde aveva scoperto che operare dal di dentro era molto più facile. E persino divertente.
Aveva invitato i bambini a tornare a trovarla il giorno seguente, e quello dopo ancora.
Alla fine, per tutta l'estate, il suo salotto era stato invaso da sei mocciosi con le ginocchia perennemente sbucciate e un appetito quasi animalesco che l'aveva costretta a rimettere mano ai suoi vecchi libri di cucina per preparare dolci e gelati.
Ma c'era un tempo, durante quei pomeriggi, che la ripagava di tutta la fatica, nonché dell'orrendo affronto che una di loro le aveva fatto chiamandola nonna.
Il piacere era diventato quasi godimento quando aveva scoperto che un paio di bambini erano i nipoti di alcuni paesani che in gioventù, e anche oltre, l'avevano derisa e umiliata per il suo aspetto.
La sua statura al di sopra della media, la singolare magrezza del corpo, la lunghezza delle mani, il viso ossuto dominato da un naso lungo ed affilato, nondimeno il suo portamento rigido e quasi ingessato, le avevano fatto guadagnare il nomignolo di Tilde la mantide.
E quell'estate Tilde aveva scoperto che la mantide aveva un grande potere.
Un pomeriggio di fine giugno, una violenta grandinata si era abbattuta sulla collina, confinando i marmocchi nel soggiorno.
Si erano seduti sul grande tappeto al centro della stanza e una femmina con le treccine bionde l'aveva guardata con occhi imploranti.
<<Raccontaci una storia, nonna Tilde.>>
Tilde aveva dissimulato il proprio raccapriccio a quel sentire e poi aveva raccontato una storia.
Una storia di fantasmi vecchia di decenni.
E così aveva scoperto che la mantide sapeva spaventare.
La biondina con le trecce aveva sussultato in continuazione, nascondendosi il viso paffuto tra le mani; l'altra femmina, quella grassa, si era stropicciata tutta la veste a forza di stringerla convulsamente fra le dita; i maschi si erano controllati di più, ma Tilde aveva scorto il terrore saettare veloce nei loro occhi.
Solo il capo branco, quello che si era ferito al ginocchio nel giardino, alla fine del racconto era riuscito a guardarla in faccia e a parlare.
<<Non ho paura!>> aveva gridato, con un sorrisetto ironico che gli piegava la bocca chiazzata di cioccolato.
Tilde aveva raccolto quella nuova sfida, trascorrendo ore e ore a pescare dalla memoria vecchie storie oscure della fantasia popolare e poi aveva iniziato a scriverne lei stessa, infarcendole di mostri sanguinari dalle lunghe zanne e musi pelosi, orchi mangiabambini e streghe malvagie, allenandosi con solerzia davanti alla grande specchiera della camera per trasformare la sua faccia rugosa in una maschera ributtante e la sua voce squillante in un rantolo demoniaco.
Giorno dopo giorno i pochi metri quadrati del suo salotto, circoscritti tra la vecchia poltrona, l'ampio camino di pietra e la portafinestra sul giardino, si erano caricati di un orrore e una tensione tale che non tardò a mostrare i suoi effetti.
La bambina grassa aveva perso almeno quattro chili e il suo viso appariva sfatto e segnato da occhiaie bluastre, come se da tempo non dormisse in maniera sufficiente; le trecce dell'altra bambina sembravano flosce e opache, come la sua piccola padrona; al moccioso con i capelli biondi era spuntato un tic all'occhio destro; gli altri due, che dovevano essere fratelli, non facevano che accapigliarsi e prendersi a pugni, graffiandosi come due animali.
Tilde si era domandata per quanto tempo ancora avrebbero resistito, o perlomeno, quanto tempo sarebbe ancora passato prima che i genitori avrebbero iniziato a preoccuparsi.
Solo il capo branco non mostrava segni vistosi di cedimento e Tilde era sicura che costringesse gli altri ad ascoltare ancora le sue storie, esercitando su di loro un'infantile forma di comando e suggestione.
Si era scervellata la notte precedente per farsi venire una buona idea.
E finalmente c'era riuscita.
La storia che stava raccontando quel pomeriggio, nel salotto in penombra, aveva un finale a sorpresa.
Penetrò con uno sguardo obliquo i bambini, uno ad uno.
Poi si alzò in piedi e con passi lenti raggiunse il divano all'altro capo della stanza.
I bambini voltarono simultaneamente la testa per seguire i suoi spostamenti.
Gemiti sommessi e aspirazioni veloci di muco appiccicoso riempivano l'aria.
Con uno scatto secco, che costò non poco fatica alla sua sciatica decennale, Tilde si nascose dietro il divano, grattando la gola, fino a che un respiro sibilante e affannoso, simile a quello di un moribondo, non le vibrò nelle orecchie.
Poi iniziò a ridacchiare, mischiando le parole al suo ghigno.
<< C'era una vecchietta tanto tempo fa, e c'è ancora. Abita in una casa sulla collina. - fece una pausa - e si chiama Tilde.>>
Balzò fuori da dietro il divano con un salto goffo e si trovò sul tappeto, fra i bambini.
Gridolini isterici e movimenti scomposti animarono il soggiorno.
Tilde ridacchiò ancora, poi spalancò la bocca e grugnì.
<<E Tilde mangia i bambini!>> rantolò, mentre con le mani brandiva l'aria per afferrare uno dei mocciosi.
I bambini scattarono in piedi come molle e presero a correre disordinatamente per il soggiorno.
Tilde allungò il braccio e riuscì ad afferrare una gamba del capo branco: sentì la pelle liscia e ancora glabra del polpaccio, il cotone dei calzoncini, poi avvertì un liquido caldo scorrerle sulla mano.
Il marmocchio scalciò con tutte le sue forze e Tilde lasciò la presa.
Come uno sciame impazzito, i bambini corsero verso la porta finestra: una lama di luce violenta squarciò la penombra del soggiorno e Tilde chiuse gli occhi, mentre sentiva già più lontani, forse nel giardino, i singhiozzi e lo scalpiccio spasmodico dei piccoli piedi.
Si lasciò cadere sul tappeto, esausta.
Respirò a pieni polmoni, poi liberò una risata fragorosa dal petto.
Dio, da quanto tempo non si divertiva in quel modo!
Aveva rischiato un collasso costringendo il suo vecchio corpo a un tale sforzo fisico, ma Dio del cielo, ne era valsa la pena.
Li aveva spaventati a morte!
E il capo branco se l'era persino fatta nei pantaloni!
Respirò a fondo, cercando di riportare i battiti del proprio cuore sotto la soglia di sicurezza.
Rimase immobile, spossata e, senza accorgersene, scivolò in un sonno leggero.
Un sorriso soddisfatto le arcuava le labbra rinsecchite.

 

Quando la trovarono, due settimane dopo, era ancora distesa sul tappeto del soggiorno.
Il postino, dopo aver suonato parecchie volte e non aver ottenuto risposta, aveva fatto il giro della casa e, attraversato il giardino, aveva scorto la porta finestra aperta.
Ancora prima di varcarla aveva notato un paio di cose che non gli erano affatto piaciute: la prima era che piante e fiori erano completamente secchi, come se da molti giorni nessuno si preoccupasse più di annaffiare il giardino.
La seconda era l'odore.
Il postino sfilò il fazzoletto di cotone dalla tasca e se lo premette forte sulla bocca, mentre già dallo stomaco gli saliva un conato di vomito.
Facendosi coraggio, varcò la soglia della portafinestra.
Tilde era distesa sul tappeto, ormai in avanzato stato di decomposizione.
I vestiti erano strappati in più punti.
Il postino osservò con orrore la bocca spalancata della vecchia: al suo interno, in una nauseante poltiglia di sangue raggrumato e mosche ronzanti, intravide il disgustoso moncherino della lingua, brutalmente strappata.
Il collo, le braccia e le gambe presentavano degli strani segni.
Prima di svenire il postino pensò che sembravano dei morsi.
Morsi di piccole arcate dentarie.

Marica Petrolati