Vittoria

La cattedrale suonò tre rintocchi che riecheggiarono nella notte.
Nell’attico al dodicesimo piano regnava il silenzio, il mio respiro calmo tornò ad essere l’unico elemento di disturbo.
Il nero della stanza mi nascondeva, seduta sulla mia LC2 osservavo la città che s’estendeva sotto i miei occhi mortali.
Le luci della vita sottostante arrivavano a me frantumate.
Ondeggiavo nella mano destra un bicchiere di whisky.
Il ghiaccio s’era squagliato annacquando la bevanda che non mi sentivo più d’assaggiare.
L’acuto e insopportabile suono del cercapersone interruppe le mie speranze e mi riportò nella crudele realtà.
Lasciai cadere la testa all’indietro chiudendo gli occhi.
Appoggiai il bicchiere sul pavimento in pandomo grigio e m’alzai dalla poltrona come un cadavere s’alzerebbe dalla bara in cui ha riposato per anni. Senza accendere alcuna luce mi diressi verso la cucina da dove proveniva il suono di quel maledetto oggetto. La cucina ad isola era illuminata dalle candele che avevo acceso e posizionato sul tavolo da pranzo. La loro cera era colata e traboccava dal candelabro tanto era il tempo che avevano consumato, Trovai il cercapersone proprio accanto a quella fonte di luce così primitiva ma ancora molto suggestiva. Mi sedetti nuovamente a quel tavolo dopo lunghi giorni di digiuno.
Lessi il messaggio: “decidi tu o deciderò io”.
Sospettavo che fosse ancora lui.
Tornai velocemente alla mia poltrona, il cercapersone stretto nelle mani con rabbia.

Guardai attraverso quella parete di vetro riflettente.
Io potevo vederlo.
Si guardava attorno impaurito. Era legato stretto su una sedia. La bocca spalancata in grida d’aiuto.
Appoggiai le mani e la fronte su quell’ostacolo che ci divideva.
La porta per accedere a quello spazio era accanto a me.
Davanti a lui un’altra sedia vuota aspettava che la occupassi.
Dietro di me il capo aspettava.
Mi girai e gli chiesi se fosse proprio necessario.
Annuì con la testa.

 

M’avvicinai alla porta di sicurezza, appoggiai la mano sul display di riconoscimento e in pochi secondi il computer analizzò le mie impronte digitali, attivando così l’accesso alla stanza.
La porta s’aprì.
Il prigioniero alzò lo sguardo aspettando di vedere il suo rapitore.
Feci un passo avanti, poi un secondo e un terzo, fino a raggiungere un raggio di luce che mi colpì in pieno viso.
I suoi occhi inizialmente s’illuminarono poi si riempirono di dubbi e domande.
La porta si richiuse alle mie spalle con un boato.
M’avvicinai a lui e mi sedetti sulla sedia che m’attendeva.

 

<<Finalmente ti rivedo>>
Abbassai lo sguardo a terra.
<<Mi sei mancata. Dov’eri?>>
Rialzai gli occhi e lo guardai dritto in faccia
<<Più vicino di quanto tu possa immaginare.>>
<<Dove mi trovo?>>
<<Benvenuto all’inferno.>>
<<Perché sono qui? Perché ci sei anche tu?>>
<<Io lavoro qui.>>
<<Sei stata tu a farmi catturare?>>
<<No.>>
<<Chi allora?>>
<<Il mio capo ti vuole morto.>>
<<Perché?>>
<<T’ho detto troppo e vivo sei un grosso pericolo. Si tace solo da morti.>>
<<Sei qui per salvarmi?>>
<<Sono qui per obbedire.>>
<<Quindi devi...>>
<<Devo ucciderti.>>
<<Ti amo, non svelerei mai nulla e tu lo sai! Non puoi uccidere la persona che ami!>>

 

Mi girai mentre una lacrima mi correva fredda sulla guancia.
Aveva ragione, lo amavo, ma non potevo disubbidire gli ordini che mi venivano dati.
I patti erano stati chiari fin dall’inizio: entrando a far parte di quell’organizzazione segreta averi dovuto evitare ogni confidenza e ogni affetto con le persone esterne ad essa.
Lui era riuscito a farmi sfuggire delle cose segrete che inizialmente erano nulla, ma con il passare del tempo la sua curiosità cresceva e prima o poi sarebbe diventato d’ostacolo alle nostre operazioni. Ho provato ad allontanarlo facendoli credere che non lo amassi ma lui non s’è mai rassegnato, m’ha cercato, m’ha controllato. Tutti questi controlli l’hanno fatto classificare dal mio capo come nemico, e i nemici dovevano essere eliminati per la sicurezza del progetto.
Ora mi ritrovavo davanti alla persona che amavo con l’incarico d’ucciderla.
Avevo già eseguito in passato ordini simili ma le persone che trovavo in quella situazione le ho sempre viste come oggetti da distruggere e non ho mai avuto scrupoli nel farlo.
In quel momento avrei dovuto eliminare lui e tutti i miei sentimenti. Gli ordini andavano eseguiti.

 

C’erano diversi modi per eliminare le persone scomode all’organizzazione, l’importante era non lasciare alcuna prova o traccia dell’accaduto.
A questo punto dovevo decidere come eliminarlo.
Pensai alla morte meno dolorosa possibile, la pistola.
Estrassi l’arma dall’imbracatura che portavo sulla coscia.
Tolsi la sicura e la diressi verso la sua fronte.
Lui chiuse gli occhi aspettando il colpo che gli trapassasse il cranio.
M’avvicinai al suo orecchio e sussurrai
<<Codice 68, paragrafo 7: se l’incaricato all’eliminazione muore prima d’aver eseguito gli ordini, la sua carica verrà di diritto assegnata all’ostaggio.
Sai, è così che io ho ottenuto questo lavoro. Ora è tuo.>>

 

Spostai con un movimento veloce la pistola dalla sua fronte e la infilai nella mia bocca. Il capo, che aveva assistito a tutta la scena, si precipitò nella stanza per impedire di perdere il suo agente più qualificato e brillante, ma io fui più veloce di lui: premetti il grilletto con gli occhi felici di vittoria.

Maria Chiara Bernasconi