Fulvia

Secondo Shakespeare, "il diavolo è un galantuomo". Beh, una cosa è certa: Ken Muse, il nostro vicino di casa, galantuomo lo era. Ma era anche un tipo che definire "strano" sarebbe stato un eufemismo. Sebbene esibisse un'espressione sempre cordiale, salutava appena e conduceva una vita assai appartata. Mai che ricevesse visite o che si intrattenesse a parlare con gli altri abitanti della strada.
Un mattino di novembre stavo andando a scuola quando lo vidi fermo accanto alla staccionata della sua villetta. Indossava una vestaglia da camera e reggeva tra le mani un voluminoso cartoccio. "Buondì" mi salutò come al solito, senza nemmeno volgersi a guardarmi veramente.
"Buondì" replicai, e rallentai il passo. Che cosa ci faceva là fuori con quel tempo? Il vento soffiava e di sicuro avrebbe presto diluviato. Non potei trattenermi dall'osservare: "C'è un'arietta umida quest'oggi, eh?"
"Sì, sì..." fece lui, e per un attimo il suo sorriso di circostanza ebbe uno smottamento.
Mi fermai del tutto e chinai lo sguardo sui suoi piedi: portava pantofole e niente calze. "Si beccherà un raffreddore" dissi.
Sospirò, come se si fosse rassegnato alla mia presenza, e borbottò: "Fosse solo quello..."
"Prego?"
Un altro sospiro, stavolta coperto da un grugnito. Sussultai. Ma non era stato il signor Muse a emettere il grugnito: proveniva da oltre la staccionata.
"Buono, buono" mormorò l'uomo.
"Cos'è? Il suo cane?" inquisii.
"Sì, proprio" annuì Ken Muse frettolosamente, ritrovando il sorriso. "Il mio cane, giusto."
Ignoravo che ne possedesse uno. Stavo per dirglielo, quando il grugnito aumentò d'intensità, accompagnato da un grattare impaziente sulle assi di legno.
"Oggi è più affamato del solito" disse il signor Muse. "Buono" ripeté. Infilò una mano nel cartoccio e ne trasse un grosso osso con su attaccata della carne. "E' stranamente nervoso" aggiunse a mò di scusa, e buttò l'osso al di là della staccionata. "Ogni tanto gli prende." Seguì un rumore di mascelle che lavoravano disordinatamente.
"Fuiii!" fischiai. "Dev'essere bello grosso! Di che razza è?" E cercai di sporgermi al di sopra delle assi per guardare. Ma il signor Muse si infrappose repentinamente tra me e la staccionata. Lo fissai stranito. Quel gesto così scorbutico, che mai ci si sarebbe aspettato da una persona come lui, diede adito a mille domande nella mia testa. Chiaramente qualcosa non quadrava, e decisi che mi conveniva svignarmela. "Ora vado" annunciai con una giravolta, "o perderò l'ultimo autobus".
Invece di replicare alcunché, Ken Muse sospirò un'ennesima volta e, allungando una mano, mi trattenne per il braccio.
"Cosa diamine...?"
"Zitto, lasciami pensare!" ordinò, gettando occhiate nervose da una parte e dall'altra della strada. Le sue dita stringevano da far male. "Lei ha bisogno di compagnia, e tu..."
"Lei? Senta, devo andare per davvero. Arrivederci." Cercai di districarmi, ma il signor Muse aveva una stretta sorprendentemente ferrea.
"... e tu" continuò imperterrito, "mi sembri proprio il tipo giusto."
Dietro le sue spalle, le mascelle smisero di masticare e si sollevò un suono simile all'uggiolare di un cane. Pareva quasi che l'animale cercasse di torcere la lingua in un discorso umano.
"Vieni!" esclamò d'un tratto l'uomo, e prese a trascinarmi verso il cancello.
Ancora stordito dal suo comportamento e dalla sua forza insospettata, non opposi resistenza. Mi chiesi che fare. Invocare aiuto? Sarebbe stato inutile: a quell'ora erano già tutti sulla via del lavoro o della scuola. Per gran parte della giornata, il nostro quartiere è un deserto di case... Unicamente io quel mattino mi ero attardato, come di consueto. Già sapevo che avrei perso l'autobus; non era certo una gran novità, ma, date le circostanze, stavolta mi seccava sinceramente di non andare a scuola.
"Ora chiamo aiuto!" minacciai con poca convinzione.
Ken Muse non si degnò nemmeno di rispondermi; aprì il cancello e mi diede una spinta tale da mandarmi a rotolare sul nudo terreno.
Mentre richiudeva il catenaccio dall'interno, lanciai un'occhiata circolare. Era un giardino discretamente curato. Su un lato e sull'altro del vialetto c'erano due aiuole sfiorite, e su quella alla mia destra si stagliava un qualcosa...
Rimasi a bocca aperta mentre io e lei ci studiavamo. Era un essere magro ma muscoloso, a metà tra una cagna e una ragazza. Mi si avvicinò caracollando su zampe veloci e prese ad annusarmi dappertutto. Il volto era smagrito, il muso allungato presentava una dentatura ferina, il naso era piccolo e schiacciato, e i capelli - o crine che dir si voglia - erano lunghi e biondi. Il pube era coperto da un vello chiaro, un vello che le ornava tra l'altro anche le braccia e le gambe (zampe?). Aveva inoltre i seni piccoli e una coda a forma di punto interrogativo.
"E' in calore, ecco quel che è" mi arrivò alle orecchie la voce del signor Muse, mentre io, tutto tremante, stavo rattrappito sul terreno a lasciarmi annusare e tastare dalla creatura. Le dita... erano in tutto e per tutto simili a quelle di una ragazza; solo le unghia erano innaturalmente appuntite e forti.
"Sú, sú, Fulvia, portatelo nella tua tana."
La creatura sollevò la sua faccia a punta e, a collo teso, ululò selvaggiamente. Poi mi afferrò per gli abiti sollevandomi senza apparente difficoltà e trotterellò verso una dimessa capannetta che si trovava sul retro della casa.
Gettando il capo all'indietro, vidi Ken Muse fermo accanto al cancello a strofinarsi le mani con un sorriso soddisfatto sul volto da autentico gentleman.

 

Nella notte, la terra non ha più padroni, se non voci inumane. Giaccio immobile e osservo la danza demoniaca delle ombre senza nome. I miei genitori dormono come morti nella loro alcova e anche mio fratello, sul lettino accanto al mio, ha spento la sua coscienza per abbandonarsi tra le grinfie di Morfeo o di chi per lui.
Ormai è maggio e non è raro, in questo scorcio dell'anno, sentire i cani abbaiare, ognuno nel suo giardino; è come se intrecciassero un dialogo a distanza. All'improvviso, un verso basso ma imperioso li mette tutti quanti a tacere e io, l'udito ormai raffinato, mi stacco come un automa dal sudato sepolcro e mi avvio verso la finestra. La spalanco; la scavalco.

 

"Fulvia: io e mia moglie l'abbiamo chiamata così in riferimento al colore dei suoi capelli" mi ha spiegato il signor Muse.
Incancrenito fin dalla gioventù da idee balzane, l'uomo aveva deciso un giorno di dedicarsi all'eugenetica. Si era immerso con tale passione in tale materia da arrivare ad applicarne le teorie sul feto della moglie. La signora Muse morì durante il parto (o si suicidò: questa parte della storia non è ancora chiara) e lui si ritrovò a doversi prendere cura del mostruoso frutto della sua folle presunzione.

 

Nella cuccia di Fulvia Muse, ci sono brandelli di cadaveri stracciati e sangue dappertutto, ma oramai non ci faccio più caso. Anzi: dopo una mia prestazione particolarmente riuscita, lei mi tende ogni tanto un trancio di carne che non so rifiutare. Che si tratti di gatto, cane o selvaggina, non ha importanza: il sapore non è cattivo. Spesso a casa non mangio e mia madre si preoccupa. "Sei smagrito, sembri un selvaggio..." mi ripete. Ma non bisogna mai badare a quanto dicono le madri.
Se sono smagrito, c'è una precisa ragione. Fulvia ha fatto di me un idiot savant propenso al sesso. Ci ho impiegato parecchio per imparare a fondo la sua insolita anatomia, ma posso affermare di esserci riuscito pienamente. D'altronde, anche lei ha dovuto imparare la mia; e lo ha fatto usando gli artigli, le zanne e quant'altro.
Nascondo le mie ferite d'amore sotto indumenti abbottonatissimi.
Certo, nei primi tempi cercavo di resistere ai richiami di sirena che provenivano dal giardino dei Muse, ma, mentre la paura per le fattezze di Fulvia diminuiva di giorno in giorno, cresceva sempre più la fame dei sensi.

 

Ogni tanto Ken Muse sembra affranto dalla vista di noi due avvinghiati strettamente. Suppongo che, come tutti i padri, soffra di gelosia. Ma poi si rammenta che solo un compagno accondiscendente può calmare i bollori della figlia e, sospirando, si volge via con un fruscio della sua regale vestaglia. Mentre lo sento allontanarsi sulle sue pantofole di raso, annuso la vagina che mi viene offerta ed emetto un lungo ululato felice.

Franc'O'Brain