Abhaya mudra

- Statua di Buddha in bronzo dorato Thai, Chen Sen, tredicesimo secolo, mano destra levata nel gesto abhaya mudra, simbolo della rinuncia e della rassicurazione, occhi intarsiati, centocinquanta centimetri, condizioni ottime. Prezzo di partenza: diciottomila dollari - aveva annunciato il battitore.
Le era piaciuta. E da allora ogni mattina, appena sveglia, contemplava quell’androgino severo e imperturbabile. Le piaceva lo sguardo distante, immerso in un punto indecifrabile dello spazio; la mano che opponeva un altolà placido e fermo all’assalto del mondo esterno. Per un attimo sentiva allentarsi il tormento che la corrodeva scavando le linee del suo destino. Era così che avrebbe voluto essere, e non solo apparire. Perché aveva compiuto atti terribili e non sapeva fino a quando avrebbe saputo dominarli.
Stese il braccio nel letto e scoperse di essere sola. Ancora una volta. Fu riafferrata dal feroce senso di tradimento e di abbandono che la aggrediva ogni volta che John non rientrava a casa la sera e non se ne avevano notizie per qualche giorno. La invase una rabbia tanto violenta quanto la capacità di comprimerla dentro di sé. Secondo la sua psicanalista aveva spostato su di lui la dimensione affettiva paterna: con lui voleva riannodare il legame con un padre che da bambina le era mancato. Ma John non poteva né doveva soddisfare la sua richiesta. Insistere in quella direzione sarebbe stato pericoloso...
Lo era già! La mano del Buddha le ricordò il primo altolà che aveva dato a un uomo. Se il suo autista non avesse forato sotto la pioggia, non si sarebbe riparata nell’hotel dove la Società Psicanalitica Internazionale teneva un congresso sull’”Enigma della femminilità”. Entrò incuriosita. Qualcuno illustrava una vecchia teoria sull’aggressività.
L’ordine sociale costringe la donna alla passività. Le impone la repressione dell’aggressività diceva il relatore, un uomo maturo, con occhi chiari in una testa rotonda. Avvertì, imperiosa, la necessità di smentirlo, sebbene ancora non immaginasse che avrebbe fracassato quella testa.
Il maschio insegue la femmina per unirsi sessualmente, la assale, la penetra. Non immaginava nemmeno che sarebbe stata lei a inseguirlo, assalirlo e penetrarlo.
... la donna predilige l’atteggiamento passivo impostole dalla funzione sessuale. Prolunga nella quotidianità il ruolo che ha a letto. Teoria superata perché lei stessa – amministratore potente di un’industria farmaceutica – avrebbe dimostrato che una donna, invece, prolunga a letto il ruolo che ha nella vita quotidiana.
Volle catturarlo dopo la conferenza con una domanda banale e il professore morse l’esca. Perché non continuare la discussione con calma... a cena? Lei accettò. John non si era visto da due giorni e lei era furente. Quella notte, mentre recitava un orgasmo sotto la massa flaccida della sua preda, aveva finto di arrendersi così come la bambina si lascia educare più facilmente del maschio al controllo delle escrezioni. È la prima concessione che la vita pulsionale femminile si lascia strappare. Aveva detto proprio si lascia strappare. Si inviperì.
Il professore si voltò per servire un po’ di vino, lei lo stordì con una statuina di bronzo, gli sfondò una tempia e ruppe il naso. In cucina prese un lungo coltello e, a cavalcioni, iniziò a immergerlo nel torace. Lentamente. Sentiva la lama urtare contro lo sterno o una costola, scivolare via e penetrare le parti molli dei polmoni, cuore e stomaco. Si lasciò investire dal sangue caldo e si massaggiò il corpo con quell’onda densa e vischiosa. Voluttuosamente. Non era vero che il masochismo è femminile perché la società impone alla donna di reprimere l’aggressività. Mentre con le sue spinte apriva squarci in quel corpo morto, imitava i movimenti virili dell’amplesso. Non le sembrò che le tendenze distruttive sono rivolte dalla donna al proprio interno.
Quella mattina le fu chiaro che la metà della sua esistenza di donna affermata – la più intima e segreta – dipendeva da un essere capriccioso, imprevedibile e inaffidabile, vicino ma irraggiungibile, come era stato suo padre. Sarebbe rimasta ancora, inesorabilmente, inappagata? Chiamavano quella condanna coazione a ripetere.
Il furore e la rabbia si raffreddavano soltanto al rientro di John: faceva di tutto per trattenerlo, ma tutto era inutile. Legarlo a sé urtava l’indole più profonda di lui e - ammoniva la sua psicanalista - non avrebbe giovato a nessuno. Otteneva qualche attimo breve di affetto, qualche notte passata teneramente insieme ma guastata dall’incertezza dell’indomani. John aveva bisogno di lei e delle sue carezze, ma il giorno appresso poteva non farsi nemmeno vedere. Dargli tutto l’amore di cui disponeva e ricevere in cambio attenzioni casuali e incostanti la costringeva a un interrogativo logorante: era incapace di amare o di farsi amare? Non sapeva quale dei due casi fosse il più inumano. Di certo aveva imparato a odiare.
Tuttavia di fuori era sempre una donna di fascino e successo, elegante e gelida. Perché, di dentro, amore e odio si bilanciavano, correvano paralleli come due binari. Era capace di amare John e odiare tutti gli altri maschi. O piuttosto, sosteneva la sua dottoressa, amore e odio erano gli argini entro cui fluiva la lava rovente di una vita mai saziata di affetto e che aveva bisogno di raffreddarsi, di rallentare. Ma l’argine dell’odio era franato, la sua collera aveva colpito. Non certo John, non ancora colui che sapeva tenerla in equilibrio tra desiderio e illusione. L’argine si era rotto una volta e altre ancora. A ogni cedimento aveva dovuto cancellare una vita. E sempre durante le assenze di John.
Quella mattina ripensò ai dettagli delle sue uccisioni. Avrebbe vomitato solo a immaginarli. Realizzarli, invece, era inebriante. Non era come elemosinare attenzioni e amore. Sorrise perché, si disse, aveva risolto l’enigma della femminilità. Non riuscì più a stare a letto e scese in giardino dove la governante servì la colazione. Il posto di John era vuoto e il tono partecipe della servitù le affinò il senso di abbandono e il rancore. Sentirsi ancora sola le ricordò una parte della conversazione con la sua prima vittima. Tra i narcisisti, il tipo erotico è definito dall’aggressività. Non ha inibizioni perché non ha tensione tra Io e Super-io. È solitario, indipendente e risoluto. Diventa un leader, ma è molto esposto alle frustrazioni affettive... nella vita amorosa preferisce amare che essere amato e... e lei, cosa preferisce?
Lei preferiva distruggere. Avvertiva ancora, dentro, il torrente in piena ed era stanca. Quella notte avrebbe ucciso di nuovo: perché con John aveva sbagliato tutto. Perché non aveva saputo farsi amare dal padre. Perché non riusciva più a conciliare l’interno con l’esterno, a unire le sue due metà. Perché la sua mano non era quella del Buddha. Avrebbe pisciato e cacato sul cadavere per dimostrare che le sue pulsioni scorrevano libere come le sue escrezioni. Ma per l’ultima volta: si sarebbe fatta arrestare per sbalordire tutti rivelando che l’autore imprendibile di tutti quegli omicidi non era il solito maschio, ma una donna forte e padrona di sé, che non dipendeva dal desiderio di un altro, che sapeva odiare fino all’annientamento.
Catturò l’uomo al vernissage di un pittore. Bianco, single, straniero, sulla sessantina, come gli altri. Volle che tutti notassero mentre si faceva sedurre. L’avrebbe ammazzato a casa di lui, quando sarebbe stato sicuro della conquista, illuso di dominarla. Pensava a come rendere clamoroso quell’ultimo assassinio. Sarebbe uscita di scena, sì, ma come un grande personaggio melodrammatico.
Varcata la soglia di un loft, valutò subito quale tipo di ferite avrebbe provocato ognuno degli oggetti visibili. Ma il suo cellulare vibrò. Un messaggio della sua governante, breve e conciso, diceva: “Tornato ferito”. Non inventò nemmeno una scusa. Doveva andare e basta.
A casa, il fiotto di lava che le scorreva dentro non era rallentato. Non aveva nulla da perdere e la voglia di uccidere ancora premeva. Lui era in cucina, come se niente fosse, ignaro di guardare un’assassina con la mano ancora levata a colpire, di essere la causa di tante morti e del dramma che stava per accadere. Innocente nella sua serena ottusità, guardava quella donna senza capire se volesse fargli da madre, da moglie, da padrona o da carnefice. In effetti non gliene importava. Se ne stava seduto lì, con il tono di uno che passa per caso. Era grasso, arruffato e un po’ sporco. Non badava né alla salute né al fisico. Vedendolo, lo trovò insopportabile. Si sentì sprofondare nel magma indistinto e rovente di odio e amore che stava per incenerire ogni cosa.
John, sentendo che la governante gli preparava da mangiare, si voltò da quella parte e mostrò un taglio profondo e recente, dall’orecchio sinistro alla base del collo. Le labbra della ferita, rosse e definite, la infiammarono ancora di più.
- Come te lo sei procurato?
Ne ebbe in risposta uno sbadiglio che svelò una dentatura giallognola con qualche macchia nerastra. Si stupì che quello fosse l’individuo per cui la sua vita era in bilico. Rivide suo padre e la rabbia si appuntì. John lo percepì perché la fissò con occhi sorpresi e un po’ allarmati.
- Mi hai trascurato di nuovo! Non sai che... ma adesso non te ne andrai!
Avrebbe voluto fissare un punto indecifrabile nello spazio, allontanare tutto con un gesto fermo della mano. Invece sbottò:
- Ora basta! disse puntando l’indice al suo naso. Mangerai, ti darai una ripulita e verrai a dormire con me! Hai bisogno di qualche punto. Ti terrò chiuso almeno per un mese - aggiunse perfida - Poi... vedremo!
Questa volta ottenne una risposta. John tese la testa verso la mano e tentò di mordicchiarle il dito. Con una strusciata, lasciò andare uno scroscio sonoro di rumorose fusa, come non fosse accaduto nulla. La temperatura diminuì, come al solito.
- Domani telefona al veterinario – disse alla governante.
Quella notte non uccise. La fine di tutto era rimandata per un mese almeno. E poi... chissà?

Roberto Calogiuri