Caccia alla volpe

Sarebbe accaduto anche quella notte.
Lo sentivo dentro di me, sentivo il battito del mio cuore farsi più veloce, così veloce che pareva volermi esplodere nel petto e gli arti farsi deboli come gelatina.
Stavo affacciata al balcone della finestra nella mia cameretta nel sottotetto e osservavo la luna piena, una grossa palla argentata che saliva verso l’apice del cielo notturno. Il vento forte che scuoteva le cupe sommità degli abeti e dei faggi mi sferzava il viso ma io, incurante, continuavo ad espormi alla tramontana che mi pungeva con mille aghi salini.
Presa da una frenesia istintiva scavalcai il balcone e mi lasciai scivolare giù nel cortile dove l’erba alta sul retro di casa attutì la mia caduta. Mi rialzai e in un istante i miei occhi ebbero modo di abituarsi all’oscurità. Poi, presa da puro istinto mi diressi verso la boscaglia. Come le altre notti in cui mi avventuravo fuori mi sedetti sul greto sabbioso del fiume e attesi che la luna mi inargentasse dei suoi raggi; in quei momenti nel mio corpo si irradiava un’energia primordiale che mi scuoteva fin nel profondo della mia anima. Ammesso che io avessi un’anima!
Il mio destino era scritto nelle stelle ancora prima che io nascessi...

 

I miei genitori avevano tanto desiderato avere dei figli ma i bambini che erano nati dalla loro unione erano tutti morti nel giro di poche ore o nel primo anno di vita; così mia madre, in una notte di plenilunio, aveva pregato a lungo la dea madre venerata dai celti, la cui leggenda aleggiava ancora dalle nostre parti e dopo poco tempo si era accorta con grande gioia di essere incinta. La levatrice però, quando mia madre le aveva fatto visita per annunciarle il lieto evento, l’aveva trascinata in casa e aveva sprangato la porta.
- Non c’è tempo da perdere - aveva detto la levatrice - sdraiati di là e togliti i vestiti. Dobbiamo agire in fretta! -
Così dicendo era andata a prendere le sue erbe, dell’infuso di prezzemolo e un ferro da maglia.
- Sei impazzita! - mia madre era terrorizzata - Cosa significa tutto questo?-
- Dobbiamo sbarazzarci della bambina prima che nasca! - le aveva risposto la levatrice predicendo anche il sesso del nascituro - perché nascerà in un giorno maledetto e maledetta sarà la sua vita! Questo è il suo destino! -
- Tu sei pazza! - disse mia madre - Non ucciderò mai la mia creatura: Il cielo me ne ha portate via tante ma questa nascerà e crescerà sana e forte! -
- Quella creatura sarà meledetta ! - gridò la levatrice ma mia madre fuggì via dimenticando quelle assurde parole.

 

Nacqui in una gelida notte in cui imperversava una furiosa tormenta di neve. Il parto fu difficilissimo anche perché la levatrice dando la colpa al maltempo si era rifiutata di venire e mia madre fu assistita da mia nonna e dalla sorella. Dopo molte ore di travaglio quando la tormenta si era allontanata e la luna brillava nel cielo il mio primo vagito aveva rotto il silenzio.
Era la notte del 29 febbraio 1876...
Mia madre ricordò per un istante le parole della levatrice - un giorno maledetto - ma appena mi vide scordò tutto il resto.
Io per lei ero un dono del cielo e non del male.
Crebbi solitaria e selvaggia nella nostra casina fuori dal paese; ero una bambina fantasiosa e solitaria e mi perdevo nei miei pensieri; non avendo compagni di gioco mi inventavo delle storie nela mia mente. Andavo d’accordissimo però con gli animali, in particolare col nostro cane, un pastore maremmano di nome Neve.
I primi cambiamenti avvennero in me verso i tredici anni. Cominciai ad essere scontrosa e disordinata ma mia madre non ci diede peso attribuendolo all’età critica dell’adolescenza. Non poteva sapere che dentro di me stava avvenendo qualcosa di irreparabile. Impercettibilmente i miei sensi si affinarono ma il mio carattere peggiorò. Ero allontanata e messa in disparte dalle mie coetanee e ignorata dai ragazzi del mio paese nonostante fossi considerata una bellezza. Alta per la mia età, una figura piena e vuluttuosa, lunghi capelli bruno ramati e fieri occhi verde-oro, i ragazzi e gli uomini mi osservavano di nascosto ma rifuggivano davanti al mio carattere scontroso e al mio sguardo indagatore.
Cominciai a uscire di nascosto, la notte; dovevo alzarmi in particolare nelle notti di luna piena perché mi pareva che le lenzuola mi bruciassero la pelle. Durante le mie scorribande notturne mi inoltravo nel bosco, i miei occhi scrutavano l’oscurità senza difficoltà, mi avvicinavo al fiume e mi rinfrescavo. Una notte alzando lo sguardo vidi sull’altra riva una piccole volpe che mi osservava come incuriosita. Non provando alcun timore ma, al contrario, una specie di attrazione, guadai il fiume e andai verso di lei; la volpe non si allontanò ma continuò ad osservarmi con i suoi fieri occhi dorati e lasciò che le accarezzassi il folto pelo bruno ramato.
La mia amica tornò più volte a farmi visita, con lei mi sentivo traquilla e a mio agio come non lo ero con gli esseri umani. Mi sedevo sotto un albero e, a volte lei mi saliva in grembo, io le accarezzavo il lucido manto e le confidavo i miei segreti come li avrei confidati a un’amica che non avevo. I miei genitori si accorsero di quelle fughe notturne e decisero di chiudermi a chiave in camera la sera quando mi coricavo. Ma io divenni agile e felina tanto da riuscire a saltare dalla finestra del secondo piano senza farmi male. Presto la gente cominciò a sussurrare su di me; si raccontavano le più strane storie, che la notte mi intrufolavo nei letti degli uomini, che mi incontravo con un amante nel bosco e persino che tentavo, con il mio sguardo di sedurre gli uomini ammogliati. Io non davo peso a queste chiacchiere ma cominciai ad isolarmi sempre di più, a passare fuori nel bosco intere nottate, non sentivo né il freddo né il caldo, fra le fronde mi sentivo al sicuro. Presi ad evitare sempre di più il paese in cui non mi recavo praticamente più neanche ad accompagnare mia madre nei giorni di mercato. Quest’ultima ne soffriva e si chiedeva il perché del mio comportamento; ormai avevo 19 anni avrei dovuto interessarmi ai ragazzi come tutte le mie coetanee e invece sembrava che trovassi pace solo la notte, quando mi inoltravo nel bosco.
Mio padre prese dunque una soluzione forzata: inchiodò gli scuri della mia finestra e mi rinchiuse nella mia camera. Potevo scendere a pranzo e a cena ma il resto del tempo dovevo passarlo nella mia stanza. Mia madre tentò di ribellarsi a quella segregazione ma mio padre disse che non voleva che tornassi a casa incinta di qualche mascalzone; era fermamente convinto che fuggissi nei boschi per incontrarmi con un ragazzo.
Quella prigionia era per me una tortura; abituata a stare all’aria aperta mi sentivo soffocare e una notte di plenilunio cominciai a urlare come un’ossessa in preda alla pazzia. Ci vollero due persone per tenermi ferma e quando finalmente aprirono gli scuri, facendo penetrare nella stanzetta la luce lunare, riuscirono a calmarmi.
E così continuai la mia strana vita solitaria e selvaggia e i mei genitori alla fine si rassegnarono; durante il giorno dormivo quasi sempre ma come il sole fiammeggiante calava dietro le colline un’energia vitale si sprigionava dentro di me e allora uscivo nel bosco dove passavo ore intere insieme alla mia piccola amica volpe, un’amica che non giudicava ma che sapeva ascoltarmi, l’unica che pareva comprendere, anche senza l’uso della parola, i miei veri sentimenti.
Ormai anche la gente del mio paese cominciò ad ignorarmi e a non sparlare più sul mio conto, credo che preferissero semplicemente ignorare la mia esistenza senonchè, una notte, accadde qualcosa di irreparabile.
Stufo dei continui furti di galline un contadino confidò ai paesani di avermi visto la notte in cui si era appostato per sorprendere il ladro; era una frizzante serata autunnale quando, affacciata al mio balcone, li vidi arrivare con le torce; erano lì per me, per fare giustizia sommaria. Svelta scavalcai il balcone e mi lascia scivolare di sotto poi presi a fuggire verso il bosco; qualcuno mi vide e lanciò l’allarme, mia madre tentò di fermarli, frapponendosi fra loro ma quelli la scansarono e presero a inseguirmi. Nessuno conosceva la boscaglia meglio di me ma erano così tanti che temevo sarebbero riusciti ad aggirarmi e a raggiungermi. Correvo come una disperata in camicia da notte, i rami che si impigliavano nei miei lunghi capelli quando scorsi la volpe e la seguii. Questa mi condusse nel folto del bosco, lungo piste che conosceva solo lei ma io sentivo ancora quegli uomini alle calcagna, ero disperata sapevo che mi avrebbero raggiunto; io per loro ero l’essere strano, diverso, da eliminare perché non accettavano il mio modo di vivere. Li sentivo gà dietro di me quando la volpe mi fece attraversare il fiume; il contatto con l’acqua gelida rinfrescò le mie membra accaldate ma sentivo che in me stava succedendo anche qualcos’altro, il mio corpo parve liquefarsi e fondersi con i flutti e quando giunsi sull’altra riva mi sentivo diversa. I paesani avevano raggiunto il fiume eppure non mi vedevano come io vedevo loro allora osservai la mia immagine riflessa sull’acqua; grande fu la mia sorpresa quando scorsi due grandi occhi d’oro-verde in un musetto aguzzo là, dove prima c’era il mio volto; un folto mantello rosso al posto dei miei capelli fiammeggianti; un paio di vivacissime orecchie aguzze...
Mi volsi verso la mia amica volpe che ora vedevo alla mia altezza come a chiedere spiegazioni anche se dentro di me sapevo che non ce ne erano;sapevo che quello era sempre stato il mio destino deciso ancora prima della mia nascita, sancito dai miei compleanni che avvenivano solo ogni quattro anni, da come avevo sentito di dover vivere la mia vita.
Al di là del fiume gli uomini continuavano a cercarmi ma cercavano una ragazza in camicia da notte con lunghi capelli rossi e occhi fiammeggianti ed io, nascosta al loro sguardo nella fitta boscaglia, mi sarei allontanata verso le montagne con la mia amica che sapevo, non mi avrebbe mai lasciata sola.

Rossella Bucci