Sonno

Ricordo di quando ero militare, la volta in cui un mio commilitone si suicidò. Una sera, uno sparo squarciò il silenzio della camerata. Sento ancora oggi quel suono sinistro che riecheggia sordo tra le brande. Noi soldati eravamo già coricati e le luci erano appena state spente. Lui era andato in bagno con dietro il fucile, si era seduto sul water, aveva preso in bocca la canna e aveva premuto il grilletto. Ricordo ancora la scena agghiacciante che ci si era presentata alla vista quando eravamo corsi a vedere cosa fosse successo. Sembrava una scena del film Full Metal Jacket. Quando ti spari in bocca la faccia non subisce nessun danno ma la nuca viene spazzata via. Un misto di sangue e cervello era sparso ovunque su quelle piastrelle e altro sangue era colato copiosamente sul pavimento. Fu un lavoraccio quello di pulire tutto e per fortuna non fu assegnato a me, ma mi toccò un’incombenza ancora peggiore. Il sergente ordinò il trasferimento della salma nell’infermeria e, nell’attesa che il mattino dopo fosse ispezionata dal medico militare, mise me di guardia per tutta la notte. Guardia a che cosa? Ad un cadavere che di sicuro non sarebbe scappato? Chi mai l’avrebbe toccato, nello stato in cui era? Ma gli ordini erano ordini e io dovetti obbedire, in silenzio.

Il problema era che la notte precedente avevo avuto un attacco d’influenza intestinale e avevo passato metà del tempo in bagno e nell’altra metà ero riuscito solo a sonnecchiare. La mattina, di buon’ora, la sveglia ci aveva tirato giù dalle brande. Io ero in uno stato pietoso, più stanco di quando mi ero messo a letto la sera precedente. Quel giorno ci avevano fatto marciare fino al tardo pomeriggio, non ci voleva proprio. Quindi, quella sera, non vedevo l’ora di abbracciare il mio letto e farmi una dormita ininterrotta fino al mattino.
E invece ero lì, in piedi come uno stupido, il fucile a tracolla e lo sguardo fisso nel vuoto. La salma era vicino a me, su una brandina, coperta da un telo bianco. Un silenzio irreale ci circondava.
E pensare che io quel soldato nemmeno lo conoscevo bene. Era un ragazzo schivo e taciturno. Nessuno parlava con lui e lui non faceva molto per farsi voler bene. I soliti nonni lo avevano preso di mira da qualche tempo e non passava giorno che infierissero su di lui. Io non ci avevo mai parlato e nemmeno lo avevo mai maltrattato, ma si vedeva che non era un tipo adatto alla naia e mi sembrava strano che alla visita di leva l’avessero arruolato. Quei tipi, di norma, li mandavano direttamente all’ospedale militare dove li riformavano per motivi psicologici. Lui, invece, aveva passato l’esame con successo, era abile e arruolato, pronto a servire la patria. Ora, però, era steso su un letto con la testa aperta. Di sicuro qualcosa di strano doveva avere, qualcosa che lo divorava dentro e che non lo lasciava tranquillo, quel qualcosa che gli aveva fatto trovare il coraggio di premere il grilletto.
Io lo fissavo con sguardo inespressivo. I suoi guai erano finiti, in modo definitivo, ma i miei no. Ero in piedi, fermo già da almeno tre ore e la notte era ancora infinitamente lunga. Ero sicuro che non ce l’avrei mai fatta, non mi sentivo più le gambe tanto erano stanche e le palpebre mi si chiudevano. Credo che non ci sia niente di peggio che aver sonno e non poter dormire. Arrivi al punto che gli occhi ti fanno male anche se li chiudi. Ti capita di addormentarti per mezzo secondo, ma non appena il tuo corpo inizia a sbilanciarsi ti svegli di soprassalto e il cuore ti batte a mille. Così. Così per tutta una notte, nel freddo silenzioso di quella stanza, con quel cadavere vicino a tenermi compagnia e a ricordarmi perché ero lì. Credo che sia stata la nottata più lunga della mia vita.
Sono passati vent’anni da quella notte e, che ci crediate o no, da allora non sono più riuscito a dormire. Venti lunghi anni di veglia continua. I migliori medici e i più rinomati esperti delle disfunzioni del sonno mi hanno visitato e mi hanno prescritto ogni tipo di cura e terapia, ma senza nessun miglioramento.
Io credo che sia la maledizione di quell’anima inquieta, di quello spirito senza pace. Sì, è lui di certo, è la sua vendetta finale perché anche nel trapasso non ha avuto commiserazione. Me lo ricordo come fosse ieri, nonostante in quella stanza ci fosse morte, delusione per una vita finita, amarezza per i sogni infranti, l’unica cosa che mi importava veramente era la mia smisurata voglia di dormire.

Mauro Fresia