Underground

Le rotaie illuminate dai neon, i manifesti pubblicitari, le panchine, sono quelle di una stazione di metrò qualunque.
Roma, Napoli, Milano, non ha importanza. Ma a Milano le panchine sarebbero più pulite, forse.
Anche la donna che aspetta tutta sola l’ultimo treno della notte è molto comune, con i suoi capelli biondo opaco, fasciata da un tallieur poco aderente. Fuma passeggiando in circolo, senza far caso al ragazzo steso a terra. È meno pericoloso di quel che sembra. Stasera gli è andata bene, si è procurato la sua dose, ora non riuscirebbe neanche a gesti a chiederle degli spiccioli. Né la cosa gli interessa. È l’unico compagno, sia pure silenzioso, che lei ha mentre aspetta. Due reietti entrambi. Più simili di quanto sembrerebbe, lei e il tossico che giace tra le cartacce. Senza un futuro certo, tutti e due senza prospettive a lunga scadenza. La silenziosa e solitaria attesa sui binari è il paradigma delle loro esistenze dimenticate. A quell’ora il gaudente popolo della notte si scatena pericolosamente nelle discoteche, o sciama nelle vie del centro. Tutti gli altri, i tranquilli e onesti lavoratori, già da tempo sono a casa, e dormono con la testa sul seno delle mogli. Ignari dei segreti della città e del suo cuore d’ombra, nascosto sotto i palazzi scintillanti e le strade animate. Ignari di ciò che attende sommerso, a sonnecchiare inquieto mentre la città vive alla luce del sole, per destarsi con un roco sospiro allo scoccare della mezzanotte.

Il treno finalmente arriva, sferragliante ed evanescente nell’umida foschia che aleggia sui binari. Lei sospira: il freddo pungente della stazione, la stanchezza di una lunga giornata fanno sentire il loro peso. Il tossico sembra non far caso a nulla: resta disteso a terra, immobile e incosciente.
La donna sale, assaporando l’odore di chiuso che impregna la carrozza. Varca la porta scorrevole e fissa le file di sedili. Nessuno. O meglio, soltanto un uomo in fondo alla fila di sinistra. Si lascia cadere pesantemente nel suo posto chiudendo gli occhi. Tempo che gli sportelli si chiudano ed è già immersa in pensieri stanchi e malinconici, neppure avverte che il treno si è rimesso in movimento, impegnata a meditare sul lento battito del suo cuore.

 

Dopo un po’ distoglie lo sguardo dalle sue gambe (è così esausta da non sentirle quasi più) per buttare l’occhio nelle altre carrozze. Impossibile sapere con certezza se vi sia qualcun altro lì. Si concentra sull’uomo seduto in fondo, che sembra dormire. La testa è appoggiata al finestrino, oscilla lievemente per le scosse del treno, che corre inesorabile nelle scure gallerie, come se scendesse in liquide profondità di notte marina, per fermarsi di tanto in tanto nelle stazioni tutte identiche. Non sale nessuno.
L’uomo non accenna a svegliarsi, raggomitolato nel suo cappotto chiaro. Un berretto grigio gli copre la fronte e gli occhi. Non riesce a capire bene quali siano i suoi lineamenti, l’espressione del viso, qualcosa per immaginarne l’identità.
Mentre è persa in queste riflessioni, un suono inizia a farsi strada in sottofondo al frastuono del treno in corsa.
Plick.
Pi-plick.
Plick.
Un suono secco, cadenzato, come un ticchettio, qualcosa di cui non distingue bene la natura, ma la inquieta. E se l’uomo non dormisse? Se la stesse silenziosamente osservando? Sta meditando di scendere alla fermata successiva, quando uno scossone più forte del treno fa accasciare l’uomo in avanti. Il berretto gli cade, la testa sbatte sul sedile che ha davanti.
Neanche stavolta lo sconosciuto si sveglia. Neppure il minimo grugnito di protesta, o un suono qualsiasi tra quelli che di solito produce chi è disturbato nel sonno.
Forse l’uomo non dorme. Sta male. Se è così bisogna informare qualcuno. Lei sa di non poter aspettare oltre senza agire. Deve sapere. E poi farebbe qualsiasi cosa pur di non restare sola e zitta al suo posto, nel silenzio della carrozza, rotto soltanto
Plick. Plick.
da quel suono continuo e martellante che le stupra la mente. Ne approfitta quando il treno ferma la sua corsa nell’ennesima stazione. Vincendo la paura si alza, e attraversa
Plick.
il vagone, fino al corpo
Pi-plick.
accasciato, che con molto sforzo solleva,
Plick.
E nel fare questo un piede scivola sul pavimento viscido
Swiss! Splock!
facendola cadere addosso all’uomo. Istintivamente abbassa gli occhi, e solo allora si accorge della pozza scura che si allarga sotto il sedile dell’uomo, e in cui lei cadendo ha affondato il ginocchio. Tirandosi su a fatica (il treno ha ripreso la sua corsa) osserva meglio l’uomo, gli squarci alla bocca dello stomaco, da cui la vita è sfuggita, l’odore ferroso del sangue, che
(o mio dio ne sono imbrattata)
sgocciola dai tagli nelle budella ormai svuotate, come
(tutto questo tempo e io seduta lì)
ha continuato a fare, sempre più lentamente da quando lei
(lo sentivo cadere goccia a goccia plick plick plick oddio)
ignara di tutto, ha preso posto sul treno.
Le luci della carrozza, i sedili, tutto inizia a girarle attorno mentre fissa i suoi occhi in quelli del cadavere, azzurri e freddi, sbarrati e inorriditi.
Vorrebbe urlare, provare a fuggire dall’incubo, ma in quell’attimo sente un soffio dietro il collo. Con un ultimo brivido la ragione la abbandona, gettando nella tenebra la sua mente, un attimo prima che lei si giri a guardare in volto l’assassino...
CAPOLINEA

Vincenzo Barone Lumaga