L'urlo della mandragola

La luna era alta nel cielo quella notte e illuminava tutto di un'irreale luce azzurra.
Le stelle luccicavano come diamanti nel velluto nero e quando l'astro d'argento avrebbe raggiunto la sommità della collina mi avrebbe rischiarato abbastanza il sentiero, tanto da non avere bisogno di una candela.
Attesi che passasse un'ora buona perché tutti si coricassero quindi mi affacciai al davanzale della cameretta che dividevo con i miei fratelli e scrutai la notte fresca e silenziosa; la luna era piena, una luminosa sfera dai riflessi di fuoco, adagiata nel buio notturno. Era la notte che aspettavo.
Silenziosa come un gatto scesi la scala scricchiolante e giunsi in cucina. Afferrai un lungo mantello di lana blu appeso a un gancio, una corda, un coltellino e un pezzo di cera di una vecchia candela e infilai tutti gli oggetti in un sacchetto; poi mi drappeggiai sulle spalle la lunga gabbana e uscii.
La notte ottobrina era piacevolmente temperata e luminosa. Una lieve nebbiolina si alzava dal terreno mentre pallidi raggi lunari filtravano fra i rami contorti del pergolato che ombreggiava l'aia della nostra casetta.
Al lieve chiarore distinsi il tavolo e le panche di pietra scolpite da mio padre su cui eravamo soliti desinare nelle calde serate estive. Quando la luna raggiunse la collina e si posò dietro il profilo cupo della chiesa delle Lagune capii che dovevo muovermi e mi allontanai dalla casa addormentata. Come avevo sperato il sentiero era illuminato dalle stelle.
Proseguii lungo il terreno ghiaioso, oltrepassai il vigneto poi la villa di proprietà del conte Martinelli che si ergeva cupa e tenebrosa contro il blu della notte.
Strano! In pieno giorno, con le sue pareti intonacate di un bel rosa pesca e i suoi magnifici giardini aveva un'aria allegra e signorile. Ora, anche lei sotto le ombre della notte era nuda e scarna pur nella sua vasta e opulenta ricchezza.
Ricordavo ancora il giorno in cui il conte mi aveva punito severamente solo per aver rotto una tazzina e averne versato il contenuto su un tappeto. Ricordavo ancora - e come si può scordare - il sibilo lacerante della frusta che mi colpiva le spalle e le braccia, la mia fuga per sottrarmi a una punizione ingiusta, le corse fra il roseto e la vigna mentre mi nascondevo fra i cespugli, inseguita dai servi del conte ma più di tutto... sì, ricordavo gli occhi di Vincenzo, il figlio maggiore del conte che mi guardava diretto. Quello sguardo profondo, su quegli strani occhi tagliati a mandorla del colore cupo dei boschi, quello sguardo disinteressato, troppo per un ragazzo sedicenne, mi aveva forse fatto più male delle frustate.
Di quelle mi restava qualche debole cicatrice rosata sulle spalle e le braccia ma lo sguardo di Vincenzo tornava a tormentarmi nei miei incubi notturni.
Era ormai giunta al limitare della proprietà dei conti e alle soglie del bosco; la selva si apriva davanti a me, cupa e opprimente ma io non avevo paura anzi, fra quelle fronde contorte mi sentivo al sicuro. Mio padre diceva che ero una creatura dei boschi, una figlia della natura e alla natura appartenevo come gli elfi e le fate perché mi sentivo più a mio agio nei boschi che in qualsiasi altro luogo.

Ero così sola perché nei boschi non esistevano conti con la frusta in mano pronti ad abbattersi su di una ragazzina innocente, né adolescenti ribelli pronti a sedurla. Lì nella selva, i daini e i cinghiali mi lasciavano passare tranquillamente.
La luna d'argento illuminava il mio cammino; non correvo il rischio di inciampare e cadere, conoscevo quei luoghi come il palmo della mia mano e sapevo anche dove trovare quello che stavo cercando.
L'avevo notata una notte mentre ero distesa su una vecchia coperta, la volta stellata che mi guardava e i suoi occhi resi ancora più scuri dal desiderio, sopra di me. Era inconfondibile con le sue foglie seghettate e i fiori bianchi; lui non si era accorto di nulla mentre la osservavo, troppo preso dal suo piacere. Avevamo discusso inutilmente poi io, capendo che non lo avrei mai convinto avevo deciso di far pace come al solito. Lo amavo come solo una donna sa amare e nello stesso momento lo odiavo perché non sarebbe mai stato completamente mio. Lui era già sposato con una figlia, una bellissima bimba di nome Rosa; l'avevo intravista una volta e avevo visto anche sua moglie, una creatura scialba e pallida dallo sguardo spento. Io al contrario era piena di vita, avrei potuto esserci io al suo posto ma era impossibile. Impossibile fino a quella sera quando avevo visto la piantina di mandragola. Le vecchie raccontavano che la mandragola era una pianta magica e che avrebbe potuto farmi ottenere quello che volevo; bisognava fare solo molta attenzione a come si estraeva dal terreno perchè la sua radice contorta e dalla forma umanoide era capace con il suo grido di uccidere un uomo.
Era per questo motivo che mi ero premunita perché ciò non avvenisse ed ero sicura che, in questo modo, non solo avrei potuto avere l'uomo che amavo ma mi sarei presa anche la mia piccola rivincita sul conte Martinelli e la sua verga punitrice.
I miei occhi verde chiaro scintillavano ribelli mentre raggiungevo la radura dei nostri incontri; mi avvicinai alla pianta di mandragola che stava immobile sotto la luna come se mi stesse aspettando, scavai la terra intorno con il coltellino e ebbi cura di turarmi le orecchie con la cera fredda della candela che avevo nel mio sacchettino.
Non ero fermamente convinta della pericolosità della radice, quanto ero invece convinta della pozione d'amore che ne avrei estratto ma ugualmente utilizzai la cera e poi legai con lo spago la base del fusto; ora non mi restava che estirpare la pianta.
Ero sola nell'intrico del bosco, solo la luna, le stelle e qualche animale notturno avrebbe assistito.
Una leggera brezza mi solleticò la nuca mentre tiravo con forza lo spago ma non ci feci caso; la pianta non cedeva restando abbarbicata al terreno che l'aveva generata. Tirai con più forza e finalmente sentii la pianta che cedeva e intravidi il biancore della radice. Un altro sforzo, solo un altro e poi... Non lo avevo sentito arrivare per via delle orecchie turate ma in quel momento sentii la sua mano sulla mia nuca. Mi volsi e lo vidi in piedi, dietro di me, la sua sagoma che si stagliava contro il cielo nero e vellutato; persino nel buio distinguevo i suo tratti fieri e scolpiti, la linea severa della bocca, i capelli selvaggi scompigliati ma più di tutto vedevo quegli occhi verde cupo che mi squadravano dall'alto. Quegli stessi occhi che avevano osservato freddamente una ragazzina undicenne che veniva frustata, che l'avevano vista crescere e sbocciare, che l'avevano guardata nell'impeto della passione; e che l'avevano disprezzata quando lei gli aveva confidato di aspettare un figlio da lui.
Gli occhi di Vincenzo Martinelli. E ora lui era lì dietro di me, nella radura segreta dove tradiva sua moglie e dove io gli avevo confidato tutto il mio amore. Non riuscivo a sentire cosa diceva, capivo solo che era stupito di trovarmi lì ma non quanto ne ero sorpresa io. Da quella notte, due settimane prima, quando gli avevo confidato il mio segreto, non aveva più voluto vedermi e non era più venuto agli appuntamenti mentre io lo aspettavo invano. Cosa faceva lì quella notte? Poi lo sguardo mi cadde dalla sua espressione severa al borsellino che teneva legato in cintura e cominciai a capire. Quel denaro era per me, per sbarazzarmi del bimbo che aspettavo; Vincenzo non sarebbe mai stato completamente mio, neanche con tutte le magie di questo mondo. Avevo perso.
E mentre questa disarmante ed inevitabile verità si faceva strada nel mio cuore sentii che la radice che avevo tenuto in trazione senza accorgermene, cominciava a scivolare fuori dal terreno finchè non distinsi la sua orribile sagoma bianca e vagamente umana scintillare nella notte simile a un maligno folletto.
Il bel viso di Vincenzo si contrasse in una maschera di terrore mentre i suoi occhi si spalancavano e mi guardavano un'ultima volta, poi fu tutto finito. Mi liberai dei tappi di cera e corsi accanto al suo corpo disteso, privo di vita. I begli occhi color smeraldo guardavano il cielo con un misto di orrore e sorpresa. Lo baciai sulle labbra un'ultima volta e gli chiusi le palpebre; non ero disperata solo colma di un'immensa tristezza. Poco più in là, la sagoma della radice di mandragola stava distesa sul terreno umido anch'essa ormai priva di vita come un fantoccio abbandonato.
Un lupo lanciò il suo cupo richiamo nella notte e anch'io mi riscossi: trascinai il corpo di Vincenzo fino a un dirupo e lo gettai di sotto; presto gli animali avrebbero fatto scempio del suo corpo rendendolo irriconoscibile. Gettai nel dirupo anche la mandragola ma decisi di tenere il borsellino con il denaro che doveva servire a uccidere il mio bambino.
Riguardo a quello in qualche modo me la sarei cavata e quando fosse stato grande gli avrei raccontato di suo padre, di come lo avevo amato, di come mi era stato strappato via.
Omettendo qualche discutibile particolare...

Rossella Bucci