Il bambino

Oggi sono sceso presto per fare colazione. In punta di piedi sono andato in bagno, mi sono lavato, vestito e quando sono uscito dalla camera ho chiuso piano la porta per non svegliare i miei. Volevo lasciarli dormire ancora un po’ visto che siamo in vacanza, e poi ero eccitato all’idea di fare colazione da solo come i grandi.
L’albergo è carino, ci sono un sacco di posti da esplorare, e anche un fantastico ascensore che però non posso usare perché la mamma me lo ha proibito; perciò mi sono rassegnato a prendere le scale.
Quando sono arrivato giù ho incontrato nel corridoio principale un altro bambino, forse un po’ più grande di me, che stava venendo dalla direzione opposta alla mia. Non l’avevo mai visto, ma più mi avvicinavo più avevo l’impressione che ci fosse qualcosa che non andava in lui. E quando mi è passato di fianco ho capito che avevo ragione.
Mio fratello mi prenderebbe in giro se lo sapesse, ma sono rimasto impietrito: quel bambino faceva davvero paura. Era tutto vestito di nero. Aveva la pelle chiarissima, quasi trasparente, tanto che anche nella luce fioca riuscivo a vedergli le vene sotto, e i capelli erano completamente bianchi, come un vecchio. Sembrava uno spettro. Ma quello che mi ha fatto rizzare i capelli in testa... gli occhi. Aveva gli occhi rossi come il fuoco. Rossi.
Si dev’essere accorto che lo fissavo a bocca aperta, perché si è voltato e mi ha mostrato i denti come fa un animale quando sta per attaccare. Spiccavano in mezzo al volto pallido perché erano brutti e scuri, e tutti storti; sembravano pali di legno marcio.
Terrorizzato, sono scappato via. Mentre mi fiondavo nella hall, l’ho sentito dire qualcosa in una lingua strana e poi ridere. Mi è venuta la pelle d’oca.
Quando sono entrato col fiatone, l’uomo dall’aria annoiata alla reception ha sollevato la testa da un vecchio computer sul bancone e mi ha guardato storto, poi è tornato a fissare il suo pc. Ho aspettato che il cuore riprendesse a battere normalmente, e finalmente mi sono rilassato. Davanti al maxi-schermo tivù due vecchi giocavano a carte; uno di loro tossiva in continuazione. Che schifo.

Ho sbirciato nella sala da pranzo attraverso le vetrate: anche lì c’era solo una cameriera brufolosa che metteva in ordine i tavoli.
Nel frattempo il mio stomaco aveva ricominciato a farsi sentire; anzi, lo spavento mi aveva messo ancora più fame.
Non riuscivo a togliermi dalla testa l’immagine del bambino dai capelli bianchi, il suo sguardo; mi venivano i brividi al solo pensiero. Non riuscivo a crederci: com’era possibile che... E all’improvviso mi è venuta in mente una cosa che mi aveva detto la mamma a proposito di una certa malattia chiamata albi... albinismo, sì, deve essere questo il termine giusto. Non hai una cosa chiamata melanina che è quella che dà il colore ai capelli, agli occhi e alla pelle e li protegge dal sole. Per questo devi starci lontano. D’un tratto mi è sembrato tutto chiaro: quel bambino non era un mostro, era semplicemente malato. Che stupido, spaventarmi così per nulla...
Devo ammettere che ho provato un po’ di compassione per lui, anche se aveva riso di me: perchè io so quanto sia duro essere diversi e vedere la gente che ti guarda in modo strano, e non poter fare le cose che fanno gli altri. Oh, eccome se lo so.
Intanto lo stomaco continuava a brontolare, e avevo la gola terribilmente secca. Ho guardato fuori, attraverso la porta d’ingresso aperta: c’era appena una striscia di chiaro all’orizzonte, e la luna brillava pallida nel cielo. Faceva freddo. Non mi sentivo più tanto coraggioso: le strade erano buie e poi la mamma mi avrebbe sgridato di certo se fossi uscito da solo. Che fare? Non volevo aspettarli ma non mi andava neanche di tornare su a piagnucolare come un bambino piccolo perché avevo fame: avrei fatto da solo questa volta.
Ho rivisto ancora una volta nella mente l’immagine del bambino albino, e improvvisamente mi è venuta un’idea. Ho sentito la paura svanire del tutto dentro di me, sostituita da una strana eccitazione. Non l’avevo mai fatto prima. Forse, se era salito per le scale e andava agli ultimi piani, non aveva ancora raggiunto la sua camera. Magari anche i suoi dormivano, o meglio ancora erano fuori. Potevo prendere l’ascensore per fare prima, e chissenefrega di quello specchio. Se c’era qualcuno dentro sarei sceso.
Per un attimo ho esitato. E se fosse potuto diventare mio amico? Tutti e due costretti al buio, tutti e due lontano dalla gente normale... Potevamo capirci. Quando mi ha guardato ho visto rabbia e tristezza nei suoi occhi; anch’io mi sento triste e arrabbiato ogni tanto, per quello che sono.
Ma quel pensiero è svanito subito. Il bisogno era sempre più forte. Quando mi prende non posso farci niente, è inutile. Papà dice che è questione di abitudine, che col tempo imparerò ad accettarlo. Ho guardato l’orologio nella hall: le dieci, presto si sarebbero svegliati i miei. Dovevo fare in fretta. Dicono che sono ancora troppo piccolo per cavarmela da solo, ma non è vero. E gliel’avrei dimostrato.
In quel momento mi è venuto un ultimo dubbio: e se il sangue fosse stato infetto? Poi mi è scappato da ridere. Ma no, che idea strana: l’albinismo non si trasmette col sangue.
E allora ho preso la mia decisione. Mi sono girato, ho mostrato i canini (già si stavano allungando...) all’uomo che guardava il monitor e sono tornato indietro. Ormai c’era un solo pensiero nella mia testa, e tutto il resto non contava più: avevo sete.

Chiara Baccarini