Per Edo e Alan, loro sanno perché.
Per Fritz Leiber che non lo saprà mai.
“Dottore, ce l’ha qualcosa per gli incubi?”
Il dottor Edoardo Rosati sospirò. Da ormai una settimana gestiva un ambulatorio 
da poco inaugurato nell’entroterra ligure e quella era la terza richiesta del 
genere che sentiva pronunciare da una delle sue nuove assistite.
Edoardo ponderò la donna seduta al di là della scrivania. Niente di 
straordinario. Un’ordinaria signora sui cinquant’anni che forse avrebbe esibito 
un incarnato pallido se la sua pelle da montanara non fosse stata per lustri 
addietro bruciata dal sole e riarsa dal vento. Occhi stanchi ma non rassegnati 
che in quel momento stavano valutando lui, biondo medico trentenne alle prese 
con le inevitabili esperienze del dopo laurea. Occhi guizzanti che facevano 
capolino dalla visiera di un vecchio e lacero Borsalino in feltro di lapin 
satinato. Ed era anche la terza donna che Edoardo vedeva in quello studio 
agghindata con un cappello da uomo.
“Com’è che in questo paese fate tutte brutti sogni?”
Una battuta smozzicata e diluita in un sorriso. Neanche veritiera.
Tre casi analoghi non rappresentavano la totalità. Anzi, non significavano 
proprio nulla. Il posto però emanava un’energia sinistra. Appariva oscuro e 
minaccioso, con i suoi gatti inamovibili che miagolavano aggressivi nei carrugi, 
le macchie di muffa soffiate sulle pareti di case antiche, le ombre notturne e 
sibilanti che lo attraversavano di notte. E il silenzio: a parte il vecchio 
albergo chiamato Colomba D’oro, da nessuna abitazione si levava quel brusio 
della civiltà inscatolato e diffuso dalla televisione.
“Non lo so, dottore”, rispose la donna. “Però alle mie amiche ha dato quelle... 
benzo-non-so-dirle...”
“Benzodiazepine.”
“Quella roba lì. E i brutti sogni non ci sono più, loro dicono.”
Bella notizia, anche se qualsiasi psicoterapeuta avrebbe avuto di che censurare. 
Il Diapezam che Edoardo aveva prescritto alle prime due pazienti sopprimeva o 
riduceva quelle fasi tipiche del sonno in cui si manifestano gli incubi, ma 
negavano con un colpo di spugna la possibilità di comprendere le dinamiche 
psichiche di chi ne soffriva. Dubbi deontologici da educanda, considerò Edoardo, 
queste donne chiedono soltanto di dormire.
“Va bene, signora”, disse iniziando a scrivere sul ricettario. “Ma solo per un 
breve periodo. Questi non sono problemi da psicofarmaco.”
“Stia tranquillo, dottore”, disse lei alzandosi di colpo quasi a esprimere il 
sollievo di andarsene. “A nessuna donna di qui piacciono le medicine, però, 
sa...”
  Non terminò la frase. La signora, già con una mano allungata verso di lui per 
  prendersi la ricetta, si appoggiò con l’altra al tavolino dando l’impressione di 
  essere sul punto di cadere. Quindi sbatté le pupille in modo convulso. Edoardo 
  riconobbe al volo i sintomi di un prossimo, leggero mancamento. Si alzò di 
  scatto e affiancò la donna, prestandole il braccio.
  “Venga, signora, si appoggi”, la rassicurò accompagnandola verso il lettino, “si 
  lasci pure andare, ci sono io a tenerla.”
  L’ordinaria signora cinquantenne di cui Edoardo neppure conosceva il nome si 
  tolse il cappello, si sdraiò e quindi mormorò: “Dottore, mi scusi, sono proprio 
  una stupida”, mentre Edoardo le alzava le gambe, sbottonandole il colletto del 
  vestito. Un capo unico, completo e ampio da contadina, color marrone bruciato.
  Vene in rilievo sulle caviglie con chiazze sclerodermiche.
  “Non si preoccupi. Stia solo calma e serena. Così ne approfittiamo per una 
  piccola visita.”
  “Ah, che figura meschina...”
  Edoardo le misurò subito la pressione. I valori erano perfetti.
  “Ce l’ho alta?”, chiese lei con le palpebre semichiuse.
  “Nossignora, vorrei averla io una pressione come la sua. Adesso sentiamo il 
  cuore.”
  Prese il fonendoscopio e passò all’auscultazione, poggiando la campana piatta 
  sul torace a sinistra per cogliere i toni cardiaci.
  Non percepì proprio nulla e allora inforcò meglio le olive del fonendo.
  Niente.
  Ma che succede? Si è rotto il fonendo?
  Pigiò la campana spostandola sui focolai. E l’imprecazione gli sfuggì di bocca 
  contro la sua volontà.
  “Macchecazzo!”
  La donna alzò la testa.
  “Qualcosa non va, dottore?”
  Edoardo rispose con un grugnito incomprensibile. Sentiva le guance avvampare, 
  come uno studentello colto in flagrante durante una performance di bassissimo 
  livello. Meno male, a suo giudizio, che la cultura generale della sua paziente 
  si fermava ai derivati dal latte di capra.
  Dov’è finito?, pensò. Ma l’ipotesi suonava assurda: il battito del cuore 
  non finisce da qualche parte. Prese ad agitare lo strumento a casaccio, mentre 
  le fauci gli si seccavano per l’ansia e lo stupore.
  Poi udì.
  Un battito. Regolare, da sessanta contrazioni al minuto.
  “Accidenti!”
  Gli scappò pure questo, dimentico dell’inalienabile prassi che consigliava di 
  non allarmare inutilmente i pazienti.
  “Dottore...”
  “Signora, ma lei sta bene? Si è sempre sentita bene?”
  “Io... io sì. Qualche influenza ogni tanto. E... vabbè, gli incubi da un po’ di 
  tempo.”
  “Signora, lei ha la destrocardia. Ha gli organi interni invertiti come 
  posizione. Il cuore a destra e...”
  Tastò in basso sul lato sinistro.
  “... il lobo maggiore del fegato a sinistra. Si chiama situs viscerum inversus. 
  Se dovessi farle una radiografia, scopriremmo stomaco e pancreas a destra.”
  “Perché? Dove stanno di solito?”
  Edoardo sorrise. Sulla posizione del cuore tutti più o meno ne masticavano. Su 
  quella del pancreas la percentuale d’ignoranti si allargava di almeno un terzo. 
  Non le rispose e si preoccupò invece di rincuorarla.
  “Stia tranquilla. Non se ne deve crucciare. L’importante è che la destrocardia 
  non sia associata ad altre malformazioni. Il che, se fosse, le avrebbe già 
  provocato più di un grave problema. Ha soltanto gli organi interni al contrario, 
  ma tutto funziona come deve funzionare. Come si sente?”
  “Mi sta passando.”
  “E’ sicura? Dovrebbe fare degli accertamenti. Accusa spesso questi sintomi?”
  “No, dottore”, disse lei, sporgendo i piedi fuori dal lettino. “Forse mi sono 
  alzata dalle sedia troppo... troppo decisa. Sa, il sangue...”
  “Già.”
  La donna si mise in piedi e recuperò il cappello che si calcò con forza sul 
  cranio. Appariva in forza, normale, una robusta contadina di altura, forse 
  prematuramente invecchiata, colpa del lavoro e del clima impietoso. Edoardo 
  recuperò la ricetta.
  “Ecco qua, signora... signora?”
  “Mi sta chiedendo il nome, dottore?”
  “Devo, signora. Lei è una mia paziente.”
  “Mi chiamo Lucia. Lucia Morello.”
  “Arrivederci, Lucia.”
  Con passo sicuro la donna uscì dallo studio. Edoardo raggiunse la scrivania, 
  digitò sulla tastiera del computer e aprì il nuovo file su Lucia Morello, 
  inserendo il dato dell’anomalia congenita. Mentre salvava i dati, sillabò ad 
  alta voce “A-VAN-TI!” e l’uscio dello studio con lentezza esasperante si riaprì. 
  Un’altra donna. Molto più anziana. Un po’ ricurva, sorriso sdentato ma camminava 
  senz’ausilio di bastoni. Abito nero con piccoli pois bianchi, scialle e foulard 
  anch’essi neri. Oltre la settantina. Anzi, forse già a ridosso del decennio 
  successivo. E il Borsalino in feltro di lepre, non antico come quello della 
  Morello, sopra la conocchia di capelli.
  Edoardo indugiava fra il sentirsi divertito o sconcertato.
  “Prego, signora, si accomodi.”
  Lei, scricchiolante, si sedette con dignitosa fatica, appoggiando le mani 
  adunche e violacee sulla base della scrivania. Nel suo caso Edoardo scelse di 
  conoscerne subito i dati anagrafici e le chiese sfoderando il suo miglior 
  sorriso da incantatore di serpenti:
  “Come si chiama, dolce nonnina?”
  “Amalia, bel dottorino biondo.”
  Edoardo rise. Bell’inizio, rilassante. La vecchia irradiava simpatia.
  “E di cognome?”
  “Scarella.”
  “Scarella”, digitò il cognome sulla tastiera. “Bene. Che problemi ci sono, 
  Amalia?”
  La risposta gli bloccò il respiro.
  “Tengo gli incubi, dottore.”
  Vide una mano, una sua mano, tremare. Che stava succedendo? Avevano ordito una 
  congiura per spacciarsi a vicenda benzodiazepine?
  Ma no, sono montanare. Che vuoi che ne sappiano...
  Quel pensiero gli scomparve di colpo dalla mente. Un’altra intuizione ora 
  premeva alla porta della sua coscienza. Una verifica che doveva compiere. 
  Subito.
  Si alzò in piedi. Con fare cordiale affiancò l’anziana sul lato destro e le 
  chiese di alzarsi, porgendole il braccio.
  “Venga, signora Amalia, sul lettino”, le comunicò gigioneggiando.
  “Voglio auscultarla.”
  Amalia si levò in piedi con qualche difficoltà. Poi fu molto più dura stenderla 
  supina sul lettino. Ma non pesava molto, tutta nervi e ossa. Edoardo le tolse il 
  cappello con delicatezza e afferrò il fonendoscopio.
  Devo essermi ammattito, considerò fra sé e sé, questo paese mi sta prendendo 
  male.
  “Sentiamo il cuore, Amalia”, le disse con ilarità, “Alla sua età è quel che 
  serve per tagliare il traguardo dei cento.”
  “Ah, il cuore... quello.”
  Appoggiò lo strumento sul torace in alto a sinistra. Il battito di quello non lo 
  udì affatto. Fu pervaso in meno di una secondo da una sensazione più che 
  sgradevole, qualcosa che assomigliava a una nausea acida. Déjà vu non 
  sembrava proprio il termine più congruo.
  Non è possibile, è un sogno!
  Non lo era. Spostò il fonendoscopio sulla destra con rassegnato fatalismo. 
  Eccolo, quello. Un buon battito data l’età, forse sotto i sessanta al minuto. 
  Ripose lo strumento e aiutò la vecchia a rialzarsi.
  Lei si rimise il Borsalino in testa e chiese:
  “Soltanto il cuore, dottore?”
  Edoardo non si pose il problema di quanto poteva apparirle rabbuiato. Fece un 
  cenno affermativo con la testa, compilò la ricetta con il Diapezam, allungò il 
  foglio ad Amalia e poi l’accompagnò alla porta.
  “Arrivederci, bel dottorino biondo”, lo salutò lei con tenerezza. “Non mi 
  verranno più i brutti sogni?”
  Lui rispose di sì, ancora una volta con la testa, senza curarsi di apparire 
  altrove.
  Poi, mentre Amalia guadagnava l’uscita con il suo passo a rilento, constatò che 
  non si vedevano pazienti.
  Bene.
  Lasciò l’uscio socchiuso. Andò a sedersi e compose al telefono il numero diretto 
  di Mastrovillari su a Milano. Guru delle malattie genetiche ormai alle soglie di 
  un’aurea pensione, suo mentore all’università e grande amico di famiglia. Il suo 
  parere su quella straordinaria coincidenza a questo punto era più che 
  necessario, soprattutto per capire quale via d’indagine poteva imboccarsi.
  Fu fortunato. Mastrovillari, lui in persona, gli rispose al quarto squillo. 
  Edoardo gli raccontò l’ultima mezz’ora vissuta.
  “Due non fanno ancora testo, Edo”, argomentò Mastrovillari. “Certo che una 
  dietro l’altra nel giro di pochi minuti è una coincidenza pesante. Non so che 
  dirti. Se ne trovi ancora, quel paese potrebbe diventare un laboratorio. Non 
  conosco un luogo al mondo dove si riscontri la sindrome di Kartagener su vasta 
  scala.”
  “Ma non mi pare Kartagener, Francesco. Nessuna donna, tra quelle che ho 
  visitato, soffre di riniti, otiti, bronchiti. Nessuna ha tosse. Queste sono 
  soltanto destrocardiche e per il resto sanissime... ma due di seguito?”
  “Se la prossima che ti chiede una visita avesse il cuore dalla parte sbagliata, 
  allora forse sì che saremmo di fronte a un caso eccezionale. Unico al mondo.”
  La porta in sala d’aspetto si era aperta. Chissà, magari era un uomo.
  “Ho gente adesso, Francesco. Se scopro un altro situs inversus, ti chiamo 
  subito.”
  “Ci conto. Ah, Edo... Non dimenticarti della domanda più importante che mi pare 
  tu non abbia ancora fatto.”
  “Ovvero?”
  “Fatti raccontare gli incubi. Se fossi uno psichiatra, andrei a nozze con 
  un’epidemia di sogni condivisi. Ciao.”
  Edo abbassò la cornetta. Adesso si sentiva più inquieto di prima.
  Gli incubi, come argomento scientifico, lo destabilizzavano. E quale relazione 
  poi potevano intrattenere con una malformazione congenita? Si sforzò di cacciare 
  l’inquietudine e grido A-VA-NTI! Con l’inconsapevole speranza di trovarsi di 
  fronte un arzillo pensionato o un contadino di mezz’età. Maschio.
  Invece no.
  Un’altra femmina.
  Bella, affascinante. Giovane. Anche lei con un’abbronzatura tinta corteccia. 
  Capelli ricci e corvini, tailleur nero, tacchi alti. Tipa cittadina. Come minimo 
  lavorava in qualche boutique giù a Sanremo. E il Borsalino in feltro bianco 
  appoggiato di traverso le stava benissimo e ne accentuava il sex appeal.
  Per quanto solido e controllato Edo avvertì l’aumentare delle pulsazioni. 
  Normale reazione mascolina, questione di feromoni.
  Lei gli sorrise senza parlare e lui cambiò di nuovo approccio. In verità si 
  trattava di una paziente agli antipodi delle precedenti, almeno per quel che si 
  vedeva. E quel che si vedeva era eccitante, non ci pioveva.
  “Buongiorno, non mi dica che pure lei soffre di incubi la notte.”
  Quel sorriso, così bello da starci male, si spense. Una ruga di preoccupazione 
  s’insinuò nella fronte liscia della ragazza.
  “Ma, dottore... Come fa a saperlo?”
  Le pulsazioni aumentarono ancora. C’entrava ancora l’erotismo, ma qualcos’altro 
  tentava di far capolino.
  “Non lo sapevo. Ma questo sogno... Riesce a ricordarsi qualche immagine?”
  Lei sospirò.
  “Poco o niente”, rispose sedendosi di fronte a lui. “Ma è ricorrente, sempre lo 
  stesso tutte le notti. Non sono sola, ci sono delle altre accanto a me. Siamo in 
  cerchio attorno a un buco scavato per terra dentro il quale qualcuno sta 
  urlando. E sta per accadere qualcosa di orribile. E mi sveglio urlando anch’io. 
  Con una paura folle.”
  “Massì, non è niente”, tentò di rassicurarla Edo, “un po’ di stress. Da quanto 
  tempo le capita?”
  “Una settimana, dottore. Ma lo stress, dice? E tutte le notti alla stessa ora?”
  “Quale ora?”
  “Le tre. Le tre in punto. Ho la sveglia sul comodino...”
  (Le tre, l’ora del lupo. Ma che mi viene in...)
  “... che suona tutte le mattine alle 6,30, ma se mi sveglio alle tre, non mi 
  riaddormento più. Non potrebbe prescrivermi il Diapezam, dottore?”
  Edo agguantò il ricettario. Quasi gli scappava da ridere.
  “Accidenti, girano le voci.”
  Anche lei sorrise. Bocca deliziosa e denti bianchissimi da cui farsi mangiare.
  “Sa, funziona.”
  “E lei che ne sa?”
  “Le altre lo dicono. Ma sono un po’ anch’io del settore. Giù ad Arma faccio la 
  segretaria in un un centro medico polivalente.”
  “Ah, quasi collega. Come si chiama? Sa, per la ricetta.”
  “Cimiano. Eleonora Cimiano.”
  “Età?”
  “Ventiquattro.”
  “È di sana costituzione fisica? Non tutti possono permettersi le benzodiapezine.”
  “Io mi sento più che bene. Sono portatrice di una malformazione congenita, ma 
  non mi reca alcun disturbo.”
  Edo alzò la testa sulla bella ragazzona che gli stava sorridendo con un velo di 
  malizia. E si chiese se lei si stesse accorgendo di quelle gocce di sudore 
  perlaceo di cui avvertiva la presenza sulla fronte: “Che malformazione?”
  “Ho una trasposizione completa dei visceri toracici e addominali. All’esame 
  radiografico si vede l’immagine speculare della posizione normale. Lo chiamano 
  situs inversus totalis, ma giù al centro non più tardi di una settimana fa mi 
  hanno garantito che si vive in assoluta normalità. “
  “Già. Proprio così”, assentì lui con i brividi che gli serpeggiavano per tutto 
  il corpo.
  Poi non parlò più. Ultimò la ricetta, la porse alla ricciolona con cappello che 
  si allontanò sculettando dopo avergli rivolto un sorriso ammiccante, toccando 
  ironicamente la visiera del Borsalino.
  Lui accennò un saluto solo con le dita, a costo di apparire all’improvviso 
  scorbutico e scostante senza motivo.
  Si alzò. Si tolse il camice e lo appese a un infisso. In sala d’aspetto non si 
  vedeva nessuno e lui era ben deciso ad approfittarne. Aveva bisogno d’aria. Più 
  tardi avrebbe telefonato a Francesco Mastrovillari.
  Uscì dallo studio e si ritrovò nel vicolo, uno dei tanti, troppi, di quel paese 
  arroccato davanti al monte Saccarello. Vicoli che salivano e che scendevano di 
  colpo, quasi per tradire il passo novizio del forestiero. Prese in direzione 
  della piazza del municipio, se non altro per uscire dal dedalo maleodorante di 
  muffa e di ardesia corrosa.
  Rintoccavano le sei. Aveva chiuso le visite con mezz’ora di anticipo.
  Pazienza, se qualcuno lo avesse redarguito, aveva già bell’e pronto un nutrito 
  repertorio di scuse più che plausibili: una chiamata improvvisa da Badalucco, un 
  paio di coliche o un avvelenamento da funghi giù a Molini. Chi mai poteva 
  prendersi la briga di controllare?
  In piazza, sotto i portici, un crocchio di vecchi intenti a discutere e a 
  fumare. Berlusconi, i comunisti, i tedeschi che si stavano comprando mezzo 
  paese, l’altra metà che il comune aveva già svenduto ai milanesi. Da una 
  settimana Edo aveva già capito il tenore delle discussioni che si captavano in 
  pubblico. Se non altro, per fortuna, il calcio era stato bandito da ogni ordine 
  del giorno.
  S’infilò nel baretto di fronte al municipio. Vecchio, polveroso, con sentore di 
  antico tabacco. Sugli scaffali aveva intravisto persino delle bottiglie da 
  collezione del Bianco Sarti o del Rabarbaro Zucca. Il barista esibiva una faccia 
  incarognita con stecchino penzolante tra i denti e una pancia che dava l’idea di 
  dover esplodere da un momento all’altro. Si fece allungare un Camparino e sfilò 
  dall’espositore un sacchetto di noccioline salate che probabilmente erano già 
  scadute all’epoca di Tangentopoli. Raggiunse un tavolo e si mise a leggere, 
  unico cliente del bar, la copia del giorno prima del “Secolo XIX”. Aveva un solo 
  scopo: sgombrare la mente dai troppi misteri accumulati in quel pomeriggio.
  Durò poco. Una sedia stridette al suo tavolo e un’ombra gli si materializzò di 
  fianco. Edo alzò lo sguardo e incontrò quello, molto più che ironico, del 
  segretario comunale Gianni Oddo.
  “Tutto bene, dottor Rosati?”
  Oddo era quel tipo di uomo che fingeva sempre di sapere qualcosa in più 
  dell’interlocutore. Piccolo, grassoccio e con pochi capelli lisci. Guance rosee 
  da porcellino per scarsa pigmentazione. A lui il sole non faceva bene come alle 
  donne del paese.
  “Certo.”
  “Ha chiuso prima oggi. Poche visite?”
  “Né poche né tante. Routine.”
  Non sembrava proprio facile sganciarsene. Allora Edo decise d’attaccare:
  “Piuttosto, dottor Oddo...”
  “Sì?”
  “Sto qui solo da una settimana e continuo a riscontrare degli strani dati 
  genetici che potrebbero far pensare a una sorta di malformazione collettiva. 
  Nulla di grave, sia chiaro, però...”
  “Santo cielo, ma che sta dicendo?”
  “Ehi, l’ho appena detto. Non c’è di che allarmarsi. E forse il problema riguarda 
  solo le donne.”
  “Ah.”
  “Oddo, come faccio per capire i gradi di parentela in questo paese senza dover 
  perdere ore al suo ufficio anagrafe dove non possedete neanche un computer?”
  Il burocrate che giaceva dormiente nel corpo di Gianni Oddo parve svegliarsi 
  imbronciato.
  “Cosa vorrebbe capire?”
  “Cimiano, Morello, Scarella e tutti gli altri cognomi locali che ancora non 
  conosco. Se volessi sapere in fretta se e quando queste famiglie si sono 
  imparentate, se e quando i loro geni si sono incrociati, che dovrei fare, Oddo?”
  “Semplice, dottore. Si fa un bel giro al cimitero. Lì trova tutte le risposte. 
  Lì è scritta la storia del paese.”
  “Il cimitero?”
  “In fondo al paese sulla strada che porta al ponte di Loreto. Non può sbagliare. 
  Anzi, il cimitero chiude alle sette. Può ancora godere di un’ora di ottima 
  luce.”
  “Grazie, Oddo... Ancora una cosa.”
  “Dica.”
  “Come mai tutte le donne qui portano un cappello da uomo?”
  “Lo sa come le chiamano sulle nostre montagne?”
  “No. Come potrei saperlo?”
  “Le Borsaline. La prima giunse dal basso Piemonte intorno al 1860. Da allora 
  stanno qui e si sono moltiplicate.”
  “Ma non mi ha risposto...”
  E non lo fece. Oddo si alzò di scatto. Salutò in maniera burocratica (‘ngiorno 
    dottor Rosati arrivederla a domani) e raggiunse l’uscita. Edo riassorbì in 
  trenta secondi lo sconcerto, pagò e uscì a sua volta.
  Quando si ritrovò all’aperto, assodò che in piazza non si vedeva più nessuno. Un 
  vento freddo di tramontana stava spazzando cartacce e foglie secche. I vecchi 
  sotto i portici erano scomparsi. Oddo dissolto pure lui. In quel momento quello 
  pareva un paese fantasma, battuto dal vento delle streghe, insidioso e denso di 
  umidità d’altura.
  Edo s’incamminò verso la strada statale della Valle Argentina.
  Anche durante il cammino non incontrò nessuno. Quei due o tre negozi 
  d’alimentari che aprivano a discrezione di chi le gestiva si mostravano 
  sbarrati. Meno male che aveva un carattere gioviale e solare – si sorprese a 
  considerare – perché la minima tendenza alla depressione su quelle montagne 
  poteva risultare fatale.
  In meno di otto minuti raggiunse il piccolo cimitero, oltrepassò il cancello 
  aperto e rimase colpito dalla cura, dalla pulizia e dalla quantità di fiori 
  coloratissimi che abbellivano ogni tomba. Notò anche che la gigantesca ombra del 
  Saccarello iniziava a lambire lo spiazzo occupato dalle lapidi.
  Si guardò attorno: era solo e, ciononostante, si sentiva spiato.
  Iniziò a camminare con lentezza fra le tombe: dopo una lunga lista di nomi e 
  cognomi che non gli dicevano nulla, inquadrò una tomba più antica e più rovinata 
  dalle altre, con una foto incorniciata al centro sbiadita e ingiallita.
AMALIA SCARELLA
DI ANNI 77
MADRE E NONNA ESEMPLARE
LE FIGLIE E I NIPOTI POSERO
TRIORA 1870-1947
Accidenti, pensò Edo, è identica alla mia paziente di oggi. Che è per 
forza la figlia. Più che somigliante, direi.
Passò oltre. Francamente non riusciva a capire dai dati anagrafici 
trascritti sulle lapidi quegli incroci parentali che, se confermati, sarebbero 
stati quanto mai utili a Mastrovillari per tracciare una mappa geografica di una 
malformazione genetica collettiva. Conosceva ancora troppo poco quel paese e la 
sua gente.
E, mentre ci rimuginava, si bloccò con un piede alzato in un’assurda posizione 
da fermo immagine televisivo con il cuore che voleva saltargli fuori dalla 
bocca.
Cristo di un dio, che scherzo mi stanno tirando?
Lucia Morello lo stava guardando sorridente. Identica alla sua Lucia 
Morello. Ma questa risultava morta sei anni prima.
LUCIA MORELLO
ANDAGNA 1950 – TRIORA 2000
UNA PRECE
Sì, bel pacco, Gianni Oddo del cazzo, ecco perché mi hai mandato qui. Ecco 
perché al bar mi hai chiesto con strana insistenza delle visite di oggi. Signori 
e signori, vi presento il gavettone per il nuovo medico di base! Ma vaffanc...
Stava imprecando ad alta voce e si fermò.
Tremante.
La lapide di Lucia Morello era crepata. Una bella fenditura larga quanto un dito 
e così vecchia che un grosso ragnaccio ci aveva fatto casa.
Un pugno nello stomaco, anzi molto più sotto: santocielo, questa è proprio 
una lapide di sei anni!
Raccomando a sé stesso di non essere così imbecille. E, mentre la sua parte 
razionale e quella in ombra si andavano azzuffando, Edo intuì che doveva 
concedersi la prova del nove. Ovvero, spostarsi sul fondo del cimitero, quello a 
nord quasi a strapiombo sulla Valle Argentina, dove si trovavano le tombe più 
recenti e cercarne - trovarne - una in particolare.
Si mise a ridere.
Una risata isterica.
Ma dai, quel pezzo di sventola che lo rizzerebbe a un morto. Scommetto che è 
lei l’artefice di questo teatrino!
Arrivò nella zona. Le recentissime sepolture non mostravano neppure la 
lapide, ma il provvisorio manifesto mortuario tenuto fisso da due stecche di 
legno. Edo rimase colpito dal fatto che erano tutti giovani, morti improvvise, 
incidenti stradali. Soltanto quelli per le strade pericolosissime dell’Appenino 
Ligure.
E la vide.
Eleonora Cimiano.
La lapide più recente. Appena forgiata, nuova di pacca, perché poi iniziavano, 
alla sua sinistra, i tumuli provvisori con manifesto.
ELEONORA CIMIANO
25 MAGGIO 1982
13 GIUGN0 2006
UN FIORE CHE DIO HA VOLUTO
RECIDERE ANCORA IN BOCCIOLO
PER NON VEDERE APPASSIRE
Lei. Ripresa di mezzo busto, bella e procace, con lo stesso vestito con cui si 
era presentata un’ora prima allo studio.
Il vento vorticò attorno a lui e muggì di rabbia. Un altro frammento di sole 
scomparve oltre il Saccarello. L’ombra di una notte prematura oscurò il minuto e 
grazioso cimitero di Triora. Edo, scomposto e in preda al panico, indietreggiò, 
senza che la prudenza lo assistesse e lo rendesse vigile della presenza di un 
qualsivoglia ostacolo alle sue spalle.
Così la sua mano sinistra, ondeggiante all’indietro, sfiorò qualcosa 
d’imprevisto – al tatto pareva nylon, tessuto sintetico all’altezza del suo 
bacino – e lui si agghiacciò.
Prese a tremare come come un bambino di fronte all’antro dell’Orco che si 
richiude per sempre, ma trovò chissà come e dove il coraggio di voltarsi.
Fibra sintetica. Autoreggenti velate con bordo ricamato, minigonna nera. 
Stangona sculettante con situs inversus totalis. Morta.
E cappello Borsalino dall’intramontabile color bianco piazzato di traverso a 
nascondere quasi del tutto gli occhi.
Eleonora.
Mortalmente sexy.
Eleonora e le altre.
Le Borsaline, ognuna con un modello diverso sulla testa.
Che stavano formando un cerchio attorno a lui.
Sbucate da una zona in ombra al riparo di lapidi secolari.
Che si avvicinavano con espressione neutra, bisbiglianti lingue antiche.
Eleonora che invece non bisbigliava e gli raccontava con voce carezzevole, 
avvicinandosi sempre più:
“Bel dottorino biondo, ma perché hai voluto visitare due di noi? Perché sei 
stato sciocco? Noi volevamo soltanto dormire senza incubi.”
Edoardo che barcollava all’indietro, adesso nella direzione opposta.
I sussurri che sembravano divorare la realtà circostante e aprire finestre 
spaziotemporali su oscure verità immutabili.
... Terza Regola della Norma dettata da Lilith (l’Antico Terrore che è 
dovunque): chi di Noi ritorna dalla Morte, camminerà sulla Terra con il cuore 
dalla parte sbagliata...
Edoardo che incespicava mentre loro avanzavano chiudendo il Cerchio e le unghie 
di Amalia, allungatesi di mezzo metro, gli laceravano la carotide. Una mano 
adunca divenuta zampa che guizzava più veloce degli artigli di un felino.
... La Quarta Profezia di Lilith...
Edoardo che cadeva all’indietro dentro una fossa scavata di fresco 
disegnando nell’aria una nuvola di sangue.
... Guardati da Colui che scoprirà la Terza Regola nel giorno di Iside...
Edoardo che si spezzava la spina dorsale nell’impatto con la cruda terra.
...altrimenti la Norma sarà infranta...
Edoardo che piangeva...
... giovane dottorino, tu eri l’incubo!
Bisbigli.
...e che moriva con la terra che pioveva dall’alto e che gli entrava nella 
bocca.
Stregheria.
Fruscii, gorgoglii, la Lingua delle Bagiue.
La Terza Regola.
Tutto questo era già stato scritto. Dal tempo del Principio. Da Lilith. E 
sottoscritto da Giuseppe Borsalino.
Triora, 3 settembre 2006, nel Giorno di Iside altrimenti chiamato Giorno dell’Allarme Universale.
 Danilo Arona, classe 1950, giornalista, scrittore, musicista, ma anche 
        ricercatore sul campo di "storie ai confini della realtà", critico 
        cinematografico e letterario, instancabile "nomade" editoriale e forse 
        qualcos'altro su cui si può tranquillamente sorvolare. Al suo attivo: un 
        incalcolabile numero di articoli disseminati qua e là tra giornali 
        locali e riviste varie; saggi sul cinema horror e fantastico e saggi sul 
        Lato Oscuro della Realtà. Da anni si dedica stabilmente alla narrativa, 
        elaborando un personale concetto di horror italiano, legato alle paure 
        del territorio, forse in grado di dimostrare che la nostra solare 
        penisola è uno dei più vasti contenitori mitologici del pianeta. Nel 
        campo della narrativa breve, numerosissime sono le sue partecipazioni 
        alle più prestigiose, e innovative, antologie degli ultimi anni.
Danilo Arona, classe 1950, giornalista, scrittore, musicista, ma anche 
        ricercatore sul campo di "storie ai confini della realtà", critico 
        cinematografico e letterario, instancabile "nomade" editoriale e forse 
        qualcos'altro su cui si può tranquillamente sorvolare. Al suo attivo: un 
        incalcolabile numero di articoli disseminati qua e là tra giornali 
        locali e riviste varie; saggi sul cinema horror e fantastico e saggi sul 
        Lato Oscuro della Realtà. Da anni si dedica stabilmente alla narrativa, 
        elaborando un personale concetto di horror italiano, legato alle paure 
        del territorio, forse in grado di dimostrare che la nostra solare 
        penisola è uno dei più vasti contenitori mitologici del pianeta. Nel 
        campo della narrativa breve, numerosissime sono le sue partecipazioni 
        alle più prestigiose, e innovative, antologie degli ultimi anni.