Lucky

Quando acquistando un pacchetto di sigarette l’occhio cade involontariamente su frasi come “ Il fumo uccide i tuoi polmoni” oppure “Il fumo uccide te e chi ti sta intorno”, invece di sensibilizzare, invogliando a disperdere il centenario vizio dell’uomo, al contrario sortiscono l’unico effetto di innervosire o, al limite, di far sorridere pensando ad una sorta di omicidio-suicidio di massa ogni volta che strettane una fra le labbra, estrai l’accendino, l’accendi e aspiri tutto il suo male, fino in fondo. Quel morbo che continua a crescere, sigaretta dopo sigaretta, s’insidia nel corpo, lo invade aspettando tacito il momento giusto per colpire, quando sei più vulnerabile, quando meno te lo aspetti.
Ed è a quel punto che tutto ti sfugge di mano, perdi il controllo come un lucido robot impazzito e la ragione perde i suoi confini. E’ così che mi sentivo. Invasa da un morbo invisibile, condotta, attraverso l’inferno, in un ospedale psichiatrico.
Psicosi maniaco-depressiva sentenziarono i medici, quei maledetti strizzacervelli.
Un animale sulla cui gabbia vi era il cartello “Attenzione! Non avvicinarsi. Pericolo.”
Il mio cane si chiamava Lucky. Un’adorabile, tenera cagnolina di Pincher, alta venti centimetri, regalatami dai miei genitori all’età di quattro anni. Ero la bambina più felice del mondo. Per ben quattordici anni Lucky crebbe con me, poi, un infarto, probabilmente dovuto all’età, e lei non c’era più. Lucky se n’era andata. Per sempre.
Il silenzio divenne il mio malinconico, perenne compagno. Il silenzio.
E il silenzio diventò opprimente, annebbiante accorgendomi che, seduta sul divano, Lucky non era lì con me, non stava appallottolata sul letto ad aspettare che finissi di studiare, capivo che non si sarebbe più accucciata al mio fianco all’esplodere dell’ennesimo raffreddore. Ero sola.
Una sera di ritorno dal lavoro mio padre rincasò stringendo tra le braccia uno scodinzolante, rumoroso batuffolo bianco. Io ci rimasi malissimo.
“Cos’è, uno scherzo, un gioco sadico o un tentativo di sostituire Lucky? Morto un papa se ne fa un altro, vero? E’ così che funziona? Non ci sto. Portalo via, al canile, o dove diavolo vuoi!” Mio padre si dimostrò irritato per il mio tono, invece mia madre cercò di tranquillizzarmi.
“Tesoro, non vogliamo sostituire Lucky, ma solo ricreare l’atmosfera di prima, quando c’era Lucky. E poi, non è carino?”
“Carino!” Tornai a sbraitare, “Carino... Ma guardalo! Sembra la caricatura fumettistica di una pecora con quel pelo a boccoloni e quelle zampette striminzite... Mi vien voglia di prenderlo a calci.” Tirai un sospiro. Il quadro era completo. Sembrava che le mie parole come un esperto pennello intinto nei colori della rabbia, della delusione e della tristezza avesse dipinto i loro volti in una raffigurazione pallida e distorta, circondata da una cornice d’incomprensione intarsiata.
“D’accordo, d’accordo tenetevelo se vi piace tanto ma io non ci voglio avere niente a che fare.”
Le scale svanirono velocemente sotto i miei piedi; sbattendo la porta dietro di me e ingiungendo di lasciarmi in pace, la mia camera divenne il mio rifugio.
Sentivo la rabbia crescermi dentro, fin dal profondo delle viscere, espandersi, salire, salire e a mano a mano diventare acuta, pungente. Non piangevo. Non urlavo. Distruggevo. I vari ninnoli e suppellettili caddero a terra uno dopo l’altro dalle mensole, dalla scrivania, dal comodino, libri, statuine, boccette di profumo, peluches...

“Come hanno potuto, perché l’hanno fatto? Loro non capiscono, solo Lucky, io voglio solo Lucky, La mia Lucky... Non c’è posto per altri...” Non riuscivo a darmi pace.

Le urla di mia madre chiamarono inevitabilmente a raccolta tutto il vicinato nel nostro giardino. Le urla provenivano dal garage. L’anziana vicina della casa di fronte svenne alla vista di quel che c’era all’interno.
Il simpatico batuffolo, quella sottospecie di pecora mal riuscita, già da qualche settimana sostituta di Lucky, penzolava da una trave del soffitto con una corda stretta intorno al collo. Gli occhi, sbarrati, erano fuori dalle orbite e colmi di terrore.
Io osservai l’intera scena dall’alto della finestra della mia camera. Del tutto indifferente.
“Povera bestiola! Povera piccola sottospecie di cane... Continuavi a ronzarmi intorno, più ti allontanavo e più mi cercavi, mi venivi appresso nel tuo cieco proposito di cane affettuoso... E’ come una mosca fastidiosa. Prima la scacci via una, due, tre, dieci, cento volte, poi, stanco, la schiacci, la elimini... Avresti dovuto ubbidirmi... Magari ora staresti scodinzolando allegramente in giardino...”
La polizia archiviò il caso definendolo sbrigativamente atto vandalico ai danni di un privato. D'altronde come poteva essere altrimenti? Il portone del garage non veniva mai chiuso a chiave, nè di giorno, nè di notte, e il nostro cancello era uno scherzo da scavalcare. Tutto calcolato.
Una cosa, però, accaduta alcuni giorni dopo, non avevo calcolato. Una cosa che mi fece perdere completamente il controllo. Una cosa che non potevo assolutamente prevedere. Addirittura pensai di essere entrata in quella particolare fase in cui, dopo una grave perdita, cerchi di rassegnarti autoconvincendoti dell’incedere inarrestabile e indifferente della vita, che bisogna comunque andare avanti e magari incontrare persone, nuovi amici, nuovi Lucky... Doveva essere così... Ma Lucky era unica... Impossibile trovarne altri. Lucky non era solo un cane. Lucky era parte della mia vita.
Stavamo cenando. Io e mia madre parlavamo del più e del meno.
“Buono, davvero, questa volta, mamma, ti sei superata. Ce n’è ancora?”
“Sì, ce n’è in abbondanza!” Rispose euforica tagliando dell’altro arrosto con un grosso coltello.
“La ricetta è semplicissima. Basta...”
“Dobbiamo parlare.” Esplose secco mio padre spostando di continuo lo sguardo da me alla mamma che seria tornò a sedersi appoggiando le mani sul tavolo quasi a voler far leva.
“Io e tua mamma abbiamo parlato molto e abbiamo preso una decisione.. E’ per il tuo bene...”
“Senti papà, se è una delle tue solite paternali...” Mio padre dilagò in un giro di parole inutili, scontate, se non addirittura banali e irritanti. La rabbia cominciò a ribollirmi dentro le viscere, mi avrebbe divorato dall’interno, si sarebbe mescolata al sangue contagiando ogni mia cellula e alla fine sarebbe esplosa.
“Noi vorremmo che tu consultassi uno specialista, qualcuno che ti possa aiutare, voleva dire questo tuo padre.”
“Uno psicologo... Uno strizzacervelli...” La rabbia saliva.
“Sì. Non è stato un periodo facile, prima Lucky...” Mia madre si alzò e prese a camminare nervosamente avanti e indietro.
“... poi quella povera bestiola... La storia dell’atto vandalico non mi ha soddisfatta. Manca qualcosa. Un particolare: Senza contare che questa è la prima volta che si verificano cose del genere e solo a noi; nessun altro ha subito danni di alcun tipo. Inoltre non capiamo il perché, a chi poteva dare fastidio il nostro nuovo cane quando Lucky non ha mai dato fastidio a nessuno...”
Capii dove volevano arrivare.
“Non starete pensando che l’abbia ucciso io?” La rabbia continuava a salire.
“Nessuno ha detto questo” rispose mio padre.
“Già, ma nemmeno negato...” La rabbia era al culmine.
“Tesoro...”
“Taci, mamma! Taci! Hai parlato anche troppo, sta zitta, non voglio sentirti!” La rabbia esplose.
Visibilmente infastidito mio padre si alzò di scatto, io mi voltai verso di lui imprimendo gli occhi nei suoi. Lo stavo sfidando.
Tirò un sospiro riprendendo la calma. La rabbia retrocesse lentamente nelle viscere da cui era venuta, come uno di quei draghi delle favole, sconfitti dal cavaliere di turno, che si rifugiano nelle loro grotte in attesa della prossima principessa da rapire.

La grossa palla di fuoco che fino a pochi attimi prima era la mia casa, la stessa casa dove io e Lucky avevamo vissuto, illuminava, con crepitanti lingue di fuoco giallo-arancio, la notte sopra di essa, serena e stellata. La casa stessa era una stella; un grosso meteorite caduto dal cielo sulla terra.
Dall’altra parte della strada, con il braccio piegato a novanta gradi, agitando la mano a destra e a sinistra in segno di saluto, osservai i miei genitori dimenarsi e urlare davanti alla finestra sigillata della loro camera da letto.
“E’ così che finiscono i traditori” pensavo, “Topi in gabbia. Ho dovuto farlo. Ora capiranno, anche loro sapranno.”
Sigillai la finestra in precedenza, nel pomeriggio, mentre i traditori erano fuori, con del silicone, quello che si trova anche al supermercato sugli scaffali del fai da te.
Ovviamente non dimenticai la porta della loro camera rompendo la serratura in modo tale che una volta chiusa non potesse riaprirsi.
L’autopompa dei vigili del fuoco mi sfrecciò accanto a sirene spiegate seguita a ruota dai vicini petulanti e sgomenti. Mi fissavano senza avvicinarsi.
Forse si chiedevano come mai non avessi addosso alcun segno dell’incendio, perché i miei genitori rimasero imprigionati e io no.
Accertatami della loro morte mi trasferii da mia nonna, una cara vecchietta che viveva tutta sola alla periferia della città. Disse che era contenta di avere finalmente un po’ di compagnia. Io fui soddisfatta, la vita trascorse pacata e ripetitiva, mi sentii libera e la rabbia giaceva finalmente tranquilla.
Strano... anche la notte dell’incendio ero tranquilla.
C’era solo un particolare ad infastidirmi. Miagolava e si strofinava addosso in continuazione. Non lo sopportavo. Io odiavo i gatti e anche Lucky li odiava.
Tutti i mercoledì mattina la nonna si recava al mercato, diceva che le verdure erano più buone, e io ne approfittai per rovistare nell’armadietto delle medicine. Tra i vari diuretici e pastiglie per la pressione, trovai delle boccette di sonnifero che mescolai nella ciotola del gatto con del cibo puntualmente divorato. Raccolsi il gatto dormiente e lo adagiai in mezzo alla strada, poco trafficata, in verità, presi la macchina dal garage e posi fine ai suoi giorni.
“Spero che questa sia la tua ultima vita, mi spiacerebbe dover ripetere la cosa...”
In seguito, al ritorno della nonna, spiegai che Bessie, il gatto, era accidentalmente scappato in strada e un’auto di passaggio lo investì.

La polizia riferì alla nonna che l’incendio alla casa fu di origine dolosa.
Trovarono il silicone alla finestra, la serratura della porta manomessa, tracce di benzina e le mie impronte. Stupida ad aver dimenticato i guanti. Mia nonna deve aver fatto due più due e raccontato delle boccette di sonnifero misteriosamente sparite, del povero Bessie, e ricordato loro la storia del cane impiccato. Era anziana non stupida.
Al mio ritorno fui ammanettata nel giro di pochi secondi, confusa e incredula.
“Tranquilla” Mi disse uno dei poliziotti, robusto e con strani baffetti all’insù, “Non credo che finirai in carcere.”
“Mi hai tradito anche tu. Anche tu sei come loro. Lo sei sempre stata. Hai aspettato paziente l’occasione giusta...Ti odio.”

L’ospedale si allungava su infiniti corridoi bianchi, monotoni, illuminati al neon. Al centro del pavimento si stendeva una lunga passerella di piastrelle verde acido uguali a quelle della stanza assegnatami. Quattro pareti bianche chiuse intorno ad un freddo prato invernale.
Da quel momento le mie giornate furono scandite da visite mediche, infermieri, interrogatori e colloqui con strizzacervelli tanto ottusi da credersi i depositari delle verità umane considerando la mente di chi sta qua dentro come una macchina che necessita semplicemente di manutenzione.
Nessuno venne mai a trovarmi, a dirmi che tutto sarebbe andato per il verso giusto, nemmeno la nonna.
I medici ordinarono agli infermieri e agli inservienti di tenermi alla larga da qualunque tipo di oggetto contundente o affilato, nastri, corde, forbici, fiammiferi, mi era consentito solo leggere, scrivere, dipingere o ascoltare musica; mangiavo in piatti, bicchieri e posate di plastica e ricevevo la carne già tagliata in piccoli pezzi.
Non sapevo se la nuova infermiera era al corrente di tali disposizioni o se fu unicamente un suo sbaglio, una sbadataggine, fatto sta che portandomi la cena entrò nella stanza preceduta dall’intero carrello delle vivande. La mia possibilità. Ogni cosa mi apparve assurdamente chiara mentre l’infermiera, di spalle, appoggiava i piatti sul tavolo e io afferravo uno dei coltelli dal carrello. Si voltò con uno smagliante sorriso sulle labbra senza accorgersi del coltello che, per tutta la lunghezza della lama, trovò nuovo fodero nel suo ventre.
“E’ fatta.” pensai. Indossai jeans e maglietta, adagia l’infermiera priva di sensi sul letto, e pregai in cuor mio di non essere vista da nessuno prendere le scale e avviarmi all’uscita.
Riuscii a pensare solo a Lucky... La mia Lucky... Lei non mi tradì mai. Pensai ai traditori. Mamma. Papà. Nonna.
“Tutti i traditori hanno quello che si meritano”. Ombre sbiadite di ricordi lontani.
“Che sbadata: La nonna dovrebbe saperlo che è pericoloso lasciare i rubinetti del gas aperti se vuole fare un sonnellino...”

Cinzia Ceriani