Nessun appello

Nella piccola università di questa città sono in pochi a sapere che, una volta terminate le noiose lezioni e scesa la notte, le aule e i corridoi deserti diventano il regno di due belve rabbiose, due grossi bastardi idrofobi dal lungo pelo nero pezzato di marrone e grigio. Il piccolo professor Carlo Martelli, chiuso nel suo piccolo studio al secondo piano, nel suo piccolo mondo fatto di teoremi e dimostrazioni per assurdo, di sicuro ne ignorava l'esistenza.
Ogni giorno i due cani facevano la spola fra la copisteria e la segreteria, racimolando carezze e tozzi di pane. Se i due animali potevano far paura anche ai più risoluti per la loro mole, i loro occhioni tristi e luccicanti riuscivano sempre a sciogliere le espressioni di terrore dei laureandi e a strappare un gesto affettuoso anche ai più pavidi. Nelle fredde notti, al contrario, tenuti al guinzaglio dal Custode i dolci cuccioli illuminavano i corridoi deserti con il loro sguardo infuocato, alla ricerca di vittime da sacrificare alla loro ingordigia.
Il professor Martelli, terminate le lezioni pomeridiane, si trovava ancora di fronte al suo monitor, ripassando alcuni appunti per il giorno successivo e preparando nuove diapositive. Non si era reso conto della notte che calava velocemente, del temporale che cominciava a scatenare la sua ira, del tempo che trascorreva inesorabile. Un tuono lo risvegliò dal suo stato di ipnosi, si guardò intorno con gli occhi spalancati: non si era reso conto di quanto a lungo fosse rimasto chiuso a lavorare. Dalla finestra vide le grosse gocce di pioggia che si abbattevano furiosamente sugli alberi intorno all'edificio e sulle auto nel parcheggio. Spense il computer rovente e ripose alcuni fogli nella sua borsa di pelle. Per pochi secondi il lampadario al neon dello studiolo si spense, il buio e l'irrequietezza calarono sugli occhi del professore.

Quando ritornò la luce, uscì via con fin troppa fretta dallo studio, richiudendo a chiave la porta dopo alcuni tentativi a vuoto. Fece solo pochi passi nello stretto corridoio illuminato. Un latrato alle sue spalle lo bloccò gelandogli il sangue ed un senso di pesantezza nel basso ventre lo incitò ad affrettarsi, percorrere di corsa l'intero secondo piano ed arrivare alle scale. Gli bastarono pochi gradini per accorgersi del rapido ticchettio alle sue spalle. Senza voltarsi e senza chiedersi nulla, in preda al panico, discese velocemente i due piani di scale. Arrivato al piano terra, lo spavento lo costrinse a deviare verso il bagno.
Il piccolo gabinetto riuscì a calmare l'animo di Martelli, prima che un violento senso di claustrofobia lo facesse scattare; con ancora i pantaloni calati cercò di aprire la porta del cesso ma inspiegabilmente il chiavistello era bloccato. Con furia si abbatté sulla porta, tirando calci e pugni, cercando con tutte le forze di sbloccare la serratura. Cercò di calmarsi e decise di scavalcare le quattro mura che lo tenevano imprigionato. Si sistemò i calzoni, posò un piede sulla tazza e si tirò su. Non fece neanche in tempo a poggiare l'altro piede che la porta venne scossa da forti colpi. Il chiavistello in un ultimo scossone saltò via.
Un enorme cane dagli occhi infuocati azzannò ad una caviglia il professore inerme, stordito dal colpo ricevuto al mento dalla porta, e lo trascinò nell'antibagno, scrollandolo con forza e lasciando sulle piastrelle bianche una sottile striscia di sangue. Mentre la bestia trascinava via la sua nuova preda, entrò il secondo cane, ringhiando di rabbia e avventandosi sul primo, contendendogli ogni morso sul corpo del professore. Mentre i due rabbiosi si azzuffavano, Martelli, ripresosi, scivolò fuori nel corridoio e, trascinandosi come un marine, riuscì a salvarsi nell'atrio. Si sollevò ed incespicando aprì il portone, uscendo nella notte fredda e sferzata dalla pioggia. Il temporale gli diede abbastanza forze da raggiungere il parcheggio e la sua auto. Non ebbe il coraggio di controllare la caviglia della gamba sinistra, gonfia e sanguinante. Si morse le labbra per sopportare il dolore. Respirando profondamente, pensò di essere ormai al sicuro.
Un'ombra nera si abbatté violentemente sulle sue spalle, mandandolo a sbattere con la fronte sul finestrino della sua monovolume. Schegge di vetro, come tanti piccoli spilli, infilzarono il suo viso e i suoi occhi, trasformando il suo dolore in una maschera di sangue. Disteso col ventre all'insù sull'asfalto nero, rivoli d'acqua si mescolarono al suo sangue, mentre le belve a turno spolpavano l'umile professore. Mentre una lo bloccava infilzandogli il petto con i lunghi artigli e inondando di fetore il suo viso, l'altra mordeva e staccava brandelli di muscolo dai polpacci, dalle cosce, da ogni parte del corpo abbastanza carnosa.
Non siamo a conoscenza del momento esatto in cui Martelli ha esalato l'ultimo respiro. Quel che possiamo dirvi è che la sua morte non ha insospettito nessuno. Questa città è piena di stradine e di vicoli pericolosi dove la vita di un uomo vale quanto il denaro che ha nel portafoglio; il Custode lo sa bene e i suoi mostri continueranno a prosperare nell'università e nel parco attorno, nei dormitori e negli uffici, condannando senza appello ogni vittima ignara.

Pancrazio Antonio Conte