Io sono Anathema

Quando mi svegliai era da poco passata la mezzanotte; mi alzai, mi stiracchiai e mi vestii, guardando distrattamente fuori dall'unica piccola finestra posta in una parete lontana. La notte era buia e nebbiosa, il tipo di nebbia che aleggiava abitualmente sulla disadattata periferia della città dove abitavo.
Mentre mi pettinavo i lunghi capelli neri, qualcuno bussò alla porta.
"Entra pure, Corey!" dissi.
"Come facevi a sapere che ero io?" mi chiese lui entrando e lasciandosi cadere sul divano sfondato.
"Domanda idiota... Vieni qui tutte le sere alla stessa ora e quando sali le scale fai tremare il palazzo..."
"Spiritosa... Sbrigati, gli altri ci aspettano." Ringhiò.
Uscimmo dal vecchio e squallido palazzo di cui occupavo (abusivamente) il sottotetto e ci riunimmo agli altri, appollaiati su una scalcinata panchina dall'altro lato della strada.
Quella sera il gruppo era più folto del solito: cinque ragazzi e due ragazze, compresi me e Corey.
"Dove andiamo stasera?" chiese Stan.
"Io propongo il topless bar all'angolo!" rispose Mark, ma gli altri bocciarono la proposta: il cibo non era di loro gradimento.
"Perché non andiamo alla St. Andrews?" propose Lidya.
"Ottima idea!" rispose Matt.
"Sì, andiamo!" gli fece eco suo fratello Jeff.
La St. Andrews Station era una vecchia stazione ferroviaria in disuso da anni, dall'architettura pseudo-gotica, popolata di tossici, barboni e sbandati come noi. Di solito andavamo là a mangiare, anche se a guardarla ispirava di tutto tranne che l'appetito... Ma ormai noi ci eravamo abituati alle stranezze e ai freaks che popolavano la stazione, e quello era diventato il nostro posto preferito.
Camminammo per una mezz'oretta facendo gli stupidi nelle viuzze sporche e puzzolenti, dove a quell'ora si vedevano solo prostitute, ubriachi stesi per terra o spacciatori che facevano affari con i loro clienti nei vicoli bui, e finalmente arrivammo alla St. Andrews. Entrammo attraverso la recinzione sfondata e attraversammo il piazzale di cemento macchiato, nelle cui crepe cresceva erbaccia giallastra e stentata. Come ogni volta alzai lo sguardo sull'edificio, accarezzai con gli occhi le sue guglie e i suoi archi, piuttosto comici se si pensava al contesto in cui erano inseriti, e come sempre non potei fare a meno di provare quasi un moto d'affetto per quel posto, che ormai consideravo come nostro territorio.
L'ingresso della stazione vera e propria era costituito da tre enormi archi di pietra a sesto acuto, affiancati, che davano su un lungo corridoio. A sinistra c'erano le biglietterie e i punti informazioni, ovviamente inutili, che erano diventati il rifugio di molti barboni che vi entravano attraverso le vetrate sfondate per passare la notte al coperto. Sulla destra invece si aprivano i binari, cinque in tutto, e su un paio erano ancora ferme le locomotive, come cadaveri dimenticati perfino dal tempo, arrugginite e rovinate dall'esposizione prolungata a sole e pioggia.
In fondo al corridoio c'era un'enorme sala d'attesa, e fu lì che ci dirigemmo, già con l'acquolina in bocca per il lauto pasto che ci aspettava.
Appena entrati localizzai un giovane punk seduto su uno dei pochi scalcinati sedili di plastica arancione rimasti nella sala d'attesa, e mi diressi verso di lui.
"Hey," lo chiamai, "hai per caso una sigaretta?"
Lui mi squadrò da capo a piedi e in quel momento capii che era fatta: era mio.
Mi sorrise e scosse la testa.
"No, mi spiace... Ma se vuoi possiamo giocare un po 'io e te..."
"Giocare? Oh, sì!" esclamai con un sorriso malizioso dopo aver finto di pensarci un su. "Mi piace giocare!"
"Bene... anche a me... Vieni, forse è meglio che ci troviamo un posto un po'meno affollato..."
Lo seguii fino ai bagni della stazione, poi lui si fermò, indeciso su quale delle due porte preferiva.
Allora io lo precedetti, e mi infilai in quello delle donne, poi feci sporgere il braccio e gli feci cenno col dito di seguirmi, cosa che lui non si fece certo ripetere due volte.
Lo guidai in uno dei cubicoli e di nuovo gli sorrisi nella maniera più provocante che potevo. Anche questo concetto non se lo fece certo ripetere: mi si gettò letteralmente addosso e mi sbattè contro il muro, iniziando a palparmi ovunque.
"Sai..." gli sussurrai in un orecchio "forse questo è il più grosso errore della tua vita... Io non sono esattamente quello che sembro..."
"Sembri una puttana, e se non lo sei non me ne frega un cazzo, io ti scopo lo stesso."
"Attento a come parli con me, stronzo..." sussurrai con la voce roca e le labbra leggermente sorridenti quasi contro la sua gola. "Potrei arrabbiarmi..."
"Vuoi chiudere il becco, troia?" ringhiò lui.
"Non credo..." mormorai ancora io.
Un secondo dopo spalancai la bocca, lasciai uscire i bianchi canini appuntiti e glieli piantai con forza nella giugulare pulsante.
Il giovane sobbalzò e gemette mentre io ritiravo i denti e iniziavo a succhiare il sangue che usciva copiosamente dai due fori sul suo collo; non un movimento da parte sua, tranne qualche brivido.
Un paio di minuti dopo il ragazzo era disteso per terra, mentre io terminavo il mio pasto. Avevo preso fino all'ultima goccia del suo sangue, e al Diavolo la Masquerade. La gente spariva in continuazione alla St. Andrews Station, nessuno avrebbe fatto caso al cadavere... se io non avessi un piccolo problema...
Spalancai la porta del cubicolo e portai fuori il ragazzo trascinandolo per la giacca sul pavimento lercio, poi con un pugno ben assestato gli fracassai il cranio e in men che non si dica mangiai anche il suo cervello.
Ma non mi bastava. Non mi bastava mai, era questa la cosa migliore...
Gli strappai entrambe le braccia con un colpo secco e le gettai distrattamente in un angolo, poi feci lo stesso con le gambe. Mi misi a cavalcioni sul tronco e infilai entrambe le mani dove fino a poco prima c'erano le gambe della mia sventurata preda, poi tirai. La parte superiore del torso venne via con una facilità impressionante, mettendo in mostra gli organi interni, lucenti e appetitosi.
Con una risata folle mi misi a farne scempio, sfondando con facilità la cassa toracica e infilando direttamente la testa dentro.
"Oh, abbiamo un amico della bottiglia, qui!" esclamai, ancora ridendo, alla vista del fegato semidistrutto dalla cirrosi; la mia voce non era più la stessa, ora era un ringhio gutturale che saliva dal profondo del mio stomaco pieno di sangue caldo.
Poco dopo, finalmente sazia, presi i pezzi del cadavere e li incastrai nella tazza del cesso nel cubicolo più vicino. Soddisfatta, guardai il risultato dei miei sforzi e gli dissi: "Così la prossima volta impari a chiamarmi troia, pezzo di merda."
Gli soffiai un bacio e lo salutai con la punta delle dita, sorridendo dalla maschera di sangue che era il mio volto, poi me ne andai. Nella sala d'attesa nessuno fece caso ai miei abiti e al mio viso quasi completamente coperti di sangue: erano tutti o troppo ubriachi o troppo fatti per rendersi conto di qualcosa.
Uscii da una porta laterale e andai a sedermi con la schiena appoggiata al muro esterno, con gli occhi chiusi; mi leccai le labbra assaporando il sangue che c'era sopra.
"Carina la tua opera d'arte..." disse una voce accanto a me.
"Ti piace? Oggi mi sento particolarmente ispirata..." risposi senza aprire gli occhi.
Corey si sedette accanto a me.
Aveva un sottile rivolo di sangue che gli colava dall'angolo della bocca; lui era molto più raffinato di me nei suoi pasti. Si pulì anche quello col dorso della mano, poi lo leccò via.
"La mia preda è un po' intontita, ma sta bene... In confronto alla tua..."
"Questo è uno dei vantaggi dell'essere un Malkavian con la Cospicua consunzione: sei creativo nell'uccidere e non te ne importa nulla..."
"Già... beh, tra un paio d'ore farà giorno... Quando anche gli altri avranno finito torniamo a casa."
Mentre si allontanava lo udii mormorare: "Malkavian... Vampiri pazzi... E in più questa deve anche sbranare le sue prede... Cospicua consunzione... bah..."
Appena se ne fu andato aprii gli occhi e sorrisi soddisfatta.
"Questa volta ho vinto io. Sono stata molto fantasiosa, vero?" Dissi.
"Già, ma tanto siamo 8 a 5 per me." Mi rispose la Voce Nella Mia Testa.
"Vincerò io." Affermai con sicurezza e con il solito folle sogghigno.
"Dopotutto, io sono Anathema..."

Sonia Palumbo