Occhi verde giada

Sotto il gelido manto della neve che cadeva fitta in grossi boccioli argentati, la ragazza rabbrividiva nel freddo pungente del gelido pomeriggio invernale. I capelli erano cosparsi di fiocchi e fradici e il piumino color rosso cupo la riparava ormai poco dal vento freddo del nord; le mani gelate si tenevano intorno al corpo come per proteggerlo e reggevano uno zainetto di jeans ormai fradicio e gelato. Sotto la visiera della coppola di velluto color granata una frangia liscia e un paio d’occhi luminosi erano l’unica cosa viva e tangibile di quel viso pallido e cereo. Eppure in fondo a quegli occhi lucenti si leggeva tutta la gioia e l’amore che era appena sbocciato dentro di lei come una rosa selvaggia e vermiglia che le riscaldava le membra con il fuoco liquido della passione. Era innamorata e quella passione non poteva essere sopraffatta dal vento del Nord, sopravviveva, riscaldata da quel germoglio che scaturiva dal suo giovane cuore romantico e innamorato. Non si rendeva ancora conto di quello che era realmente successo sapeva solo che era successo. E non si spiegava come uno come lui avesse notato una come lei, una ragazza carina, certo ma non una bellezza nel senso classico del termine. La sua vera bellezza risiedeva nelle profondità dei suoi occhi in cui si fondevano mirabilmente il verde della giada e l’argento della luna e nei suoi capelli scuri e folti come una cascata di notte. Eppure lui aveva saputo guardare in fondo a quegli occhi e l’aveva invitata a ballare, una sera.
Lui era bellissimo, bello come un dio pagano e altrettanto pericoloso e sensuale; alto e sottile con il suo fisico agile e nervoso, i lunghi capelli come l’ala di un corvo, i lineamenti scolpiti, gli occhi neri, profondi e misteriosi come un mare in tempesta...
Si chiamava Manuel, un nome spagnolo come le sue origini della terra calda d’Andalusia. La sua voce, i suoi modi latini e suadenti, il suo fascino pericoloso, tutto in lui l’aveva stregata e incatenata inesorabilmente a sé.
Aveveano ballato poi lui le aveva offerto da bere e lei aveva scelto un succo d’arancia e sopra l’orlo dello stretto bicchiere lo aveva osservato, ormai persa nella tempesta turbinante delle emozioni. Lo aveva amato sin da subito e gli aveva dato tutto di sè, la cosa più importante che non aveva mai ceduto a nessuno.
-Te quiero, my querida!- aveva sussurrato lui nella notte e quelle parole l’avevano riscaldata come il sole all’orizzonte facendo nascere e germogliare dentro di lei quel sentimento profondo e devastante.
Ma che differenza c’è fra amore e passione? Può una persona capire la linea tangibile fra il desiderare e l’amare così facilmente quando è preda della passione più cocente che ti incatena con corde di velluto alla persona che ami?
Poteva lei, Sofia (sì, questo era il nome della ragazza) capire perché Manuel non rispondeva più alle sue chiamate e non si faceva più sentire come se quella notte –la sua prima notte- non fosse significato nulla per loro?

Poteva Manuel essersi dimenticato di lei, perché Manuel, perché anche se era bello come un dio e come un dio altrettanto irraggiungibile?
Sotto il cappello e nella neve turbinante la testa di Sofia lavorava nella speranza di capire cosa era successo ma ormai sapeva che era troppo tardi per sperare di cambiare il passato. Così Manuel era scomparso e lei aveva gettato al vento la cosa più importante che aveva mentre lui aveva riso alle sue spalle e la aveva abbandonata come una cosa vecchia.
Sofia era questo per lui e Manuel chissà dov’era ora, a cavalcare per la sua calda terra andalusa, lontano da lei, i capelli d’ebano al vento caldo e il volto ribelle verso il sole nascente. E lei, Sofia stava lì a rimpiangere un amore passato e gettato via senza capire che avrebbe dovuto semplicemente dimenticarlo, che lui sarebbe sopravvissuto solo come un dolce ricordo da conservare nelle gelide notti invernali... Perché non si può pensare e struggerti per sempre per una persona che non ricambia i tuoi sentimenti o quelli che pensi siano.
Ma vallo a spiegare alla ragazza sola che trovai camminare su una strada con una temperatura inferiore allo zero, gli occhi fiammeggianti sotto il cappello, lo sguardo fisso e l’incedere regale nonostante i rigori.
Accostai, portando la mia piccola utilitaria vicino al bordo della strada e mi sporsi dal finestrino.
-Scusa, hai bisogno di un passaggio?– chiesi educatamente. Sapevo che di rado passavano autobus da quelle parti e lei era infreddolita. La viandante mi parò in faccia un paio d’occhi grigio-verdi, molto simili ai miei e in quel momento mi parve di carpire un dolore evidente in quello sguardo d’argento come se i suoi pensieri fossero passati a me attraverso il comune denominatore dei nostri colori.
-Sì sto andando a Valverde e non è passato l’autobus!-
-Sarà in ritardo, con questo tempo! Sali, ti accompagno, ci devo giusto passare!-
La ragazza mi sorrise, un sorriso che pareva rischiarare da solo un’intera stanza e salì in macchina.  Pian piano la neve era calata d’intensità e ora cadeva solo un lieve nevischio. Era incantevole nel suo sorriso stanco e meditabondo e in fondo a quelle infinite profondità argentee delle sue iridi si leggeva tanta tristezza e riflessione.
Si accomodò di fianco a me e posò in grembo lo zaino macchiato che portava; ripartii e le ruote slittarono sull’asfalto nero e lucido di ghiaccio.
-Era molto che camminavi?- chiesi per spezzare quel silenzio opalescente.
-Da un’ora circa– mi rispose lei –Mi sono incontrata con il mio ragazzo giù a Sant’Andrea e ora sto andando da mia zia.
-Il tuo ragazzo non poteva riacompagnarti?- mi stupii che l’avesse lasciata andare da sola con quel tempaccio.
-Oh, non ha la macchina, ma fa niente, sono abituata a camminare. Io mi chiamo Sofia e tu?- rispose con naturalezza.
-Mi chiamo Virginia, ma puoi chiamarmi Gill; è un diminutivo simpatico, non trovi?- mi volsi a guardarla sentendomi stranamente a disagio.
-Tu dove stai andando?- mi chiese Sofia.
-Vado dal mio ragazzo che abita quassù!-
-Anche tu devi muoverti per vederlo eh! Ah, gli uomini, non li capirò mai! Parlano, parlano, sono solo capaci di raccontare frottole. Non esistono più i cavalieri di una volta!-
-Cosa vuoi, bisogna lasciarli fare, sono fatti così, sempre un po’ bambini!-
-E poi una cosa che non capisco che non si vogliano più impegnare, gli piace stare da soli! Anche col mio ragazzo si discute sempre di questa storia!-
-Mi sembrava di capire...- esordii
-Un cavolo!- disse Sofia con una vemenza che mi sorprese– Anche lui non vedeva l’ora di svignarsela e così l’ho lasciato andare!-
Mi volsi incuriosita a guardarla e per poco non uscii fuori strada nell’affrontare una curva brusca.
Accostai lentamente sul ciglio e le chiesi scusa per la distrazione.
-Non preoccuparti– disse Sofia –anch’io a volte mi lascio andare. Per esempio col mio ragazzo! Abbiamo litigato perché ha detto che è stanco di me e voleva una pausa di rifessione ma in realtà voleva scaricarmi! Ma io gli ho risposto che non si sarebbe liberato di me tanto facilmente!-
-Forse dovresti davvero lasciarlo perdere un tipo così!- le risposi. Quella conversazione aveva preso una piega che mi infastidiva così come l’atteggiamento della ragazza, un momento prima tutta timida e sorrisi e ora esuberante e logorroica.
-Perché dovrei lasciarlo stare? Io lo amo lui solo mi ha fatto diventare donna mi ha dato l’opportunità di amare...
-Voglio dire che ci sono tanti ragazzi che...
-No!- si infiammò Sofia, gli occhi che brillavano come argento. –Lui solo è la mia passione, la mia ossessione, il mio palpito di vita ed è per questo motivo che dovunque andrò lo porterò sempre con me!-
Pronunciò quest’ultima frase con una voce calma e bassa, quasi con dolcezza, una dolcezza che però mi fece gelare il sangue nelle vene. Sofia mi guardò con i suoi grandi occhi e poi, veloce, tirò i lacci del suo zainetto impregnato di neve... e anche di qualcos’altro, di un liquido scuro e grumoso color del rubino.
Ancora ricordo l’orrore che provai quando estrasse dallo zainetto una cosa informe e coperta di sangue e io mi trovai a fissare a pochi centimetri da me gli occhi terrorizzati e stupiti di un ragazzo... due occhi belli, scuri come onice e luminosi privi di vita ma con ancora, nel profondo di quelle iridi nere d’ebano l’orrore che vi era rimasto stampato quando la testa era stata recisa dal corpo.
In preda a un terrore indicibile mi tirai indietro incapace persino di gradare mentre Sofia, soddisfatta, reggeva la testa del suo ragazzo per i lunghi capelli e la agitava di fronte a me.
-Ecco, così lui sara solo e per sempre mio e di nessun'altra!– gridò con voce stridula.
Terrorizzata sentii sotto le dita la maniglia della portiera e mi lanciai fuori dall’abitacolo con un conato di vomito che mi risaliva alla gola. Caddi fra la neve fangosa, mi rialzai e mi allontanai più in fretta possibile dalla mia macchina, da quella pazza assassina, da quella scena d’orrore che avrebbe popolato i miei incubi negli anni a venire.
Ebbi la forza di correre fino al bosco innevato e mi accasciai fra la neve dove il mio stomaco rifiutò quello che aveva dentro. Stremata mi lasciai cadere fra la neve e fissai il cielo pallido su di me; aveva smesso di nevicare e un timido raggio di sole si stava infiltrando fra le nuvole minacciose. Fu forse quel raggio ad incoraggiarmi a tornare indietro così mi alzai istabile sulle gambe e raggiunsi di nuovo la strada.
La macchina era ancora lì ma della pazza non c’era traccia; Mi chiesi se avessi avuto un’allucinazione ma le gocce di sangue sul sedile e per terra mi rimasero di testimonianza alla terribile esperienza che avevo vissuto.
Facendomi coraggio salii in macchina e ripartii. Dopo poche curve la rividi; camminava lungo la strada con passo incerto tenendo stretto al petto il suo zainetto come fosse un’oggetto prezioso. Vidi che si dirigeva verso il ponte che dava sul fiume Sambro e si sporgeva verso il rio gelato... la vidi gettarsi di sotto senza un grido, simile a una fata che spicca il volo stringendo a sé quel che rimaneva del suo grande amore che la aveva illusa e tradita.
Non tentai di fermarla... perché io lo sapevo... lei lo sapeva che solo così sarebbero stati uniti per sempre.

Rossella Bucci