Questa
    mattina il risveglio è più difficile del solito. Adoro dormire e ho sempre odiato il
    momento in cui un maledetto squillo ti sbatte giù dal letto e ti riporta dal sonno alla
    realtà. Le palpebre sono pesanti come il piombo, in bocca ho un gusto amaro: sarà la
    peperonata che Simona mi ha ammansito ieri sera? Era davvero deliziosa ed io ne vado
    matto, ma aveva un retrogusto un po strano. Forse Simona lha speziata troppo.
    Simona, mia moglie: quindici anni in meno di me, ho sempre avuto linquietante
    sospetto che mi abbia sposato più per i miei milioni che per i miei muscoli, ma dopo otto
    anni di matrimonio forse certi dubbi sono fuori luogo. Forse.
    Sento uno strano vocio. Ho freddo. Dico a me stesso: forza, dormiglione, è ora di darsi
    una mossa. Ma non ce la faccio. Ecco, riesco ad alzare impercettibilmente una palpebra.
    Scorgo unombra sopra di me. E indistinta, poi prende forma. Simona
 Ma
    perché piange? Provo a chiamarla, ma non un suono esce dalla mia voce. Urlo. Nulla.
    Simona continua a piangere, poi la sua figura si allontana. Sparisce. Tento di muovere una
    mano, un braccio. Tutto inutile. Il mio corpo sembra inerte. Vedo altri volti noti, come
    in una processione. Cè chi piange, chi scuote la testa. Cade una lacrima. Dio mio,
    si è fermata su un vetro. Quello è vetro. Con un sforzo disperato, giro lo sguardo alla
    mia destra. Il movimento è impercettibile, ma mi basta per capire, con una folgorazione
    improvvisa. No, non sono nel mio letto, non sto per alzarmi e cominciare la solita
    giornata di lavoro. Non sono avvolto in lenzuola e calde coperte di lana, ma in un sudario
    eterno, fatto di legno di pino. Sono vivo, ma tutti sono convinti che sia morto. Tutti,
    tranne Simona.
Giornalista professionista, appassionato di storia e sport, adora leggere, viaggiare, e dormire. Questo racconto è stato scritto nel 2004.