Treccine

Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2004 - edizione 3

Da oggi mi farò chiamare Katia, con la cappa, odio il mio vero nome: Carmelina, mi ricorda nonna Carmela, morta suicida ad ottantanove anni. Da poco sono orfana, mio padre, quando ero piccola, si tolse la vita in carcere. Il tribunale mi assegnò come tutore suo fratello. Lui era ricco, poteva mantenerci. Mia madre quando veniva a trovarci, due o tre volte l’anno, mi vestiva bene, mi rifaceva le trecce, come piacevano a me e mi lasciava sola con lui. Al suo ritorno si limitava ad asciugarmi gli occhi. Mio zio, un rude, un bastardo, sempre vestito di nero, prima di ripartire mi tagliava le treccine e lasciava una busta per mia madre. Per qualche giorno poi dovevo fare io tutto in casa perché lei era ubriaca. Questa storia, finita oggi, iniziò otto anni fa quando io n’avevo quattro. Lui mi tagliava le treccine, ma non sapeva che con quei capelli ne stavo ricavando una lunga abbastanza da impiccarlo.

Com’è brutto con la lingua e gli occhi di fuori della testa strozzata da una treccina. La mia l’ho voltata dall’altra parte per non vederlo, mentre con i pantaloni calati gli sto spalmando, per l’ultima volta, la Nutella sul pene. Spero che a qualche animale del bosco la Nutella non faccia schifo come a me.

 

Mia madre si trova in bagno con le vene tagliate e nella mano sinistra, la lametta che le ho messo. Lei era mancina. Per facilitare il compito alla Polizia ho messo sul vestito e sulle mani i capelli rimasti di quella treccia.

 

Fra poco prenderò la bici e il telefonino della mamma, a lei non servono più, e andrò in paese a mangiare al McDonald's. Per i soldi non ci sono problemi, sul tavolo c’è ancora la busta che mio zio ha lasciato.

Umberto Romano