Il topo

Ho convissuto con lui fin da bambino. I miei occhi innocenti lo osservavano sgusciare fuori da un armadio incassato nel muro e lo seguivano nei suoi percorsi sempre nuovi: saltava sul comodino, correva attorno alla poltrona, giocava con la sua ombra; lo perdevo solo quando s'infilava sotto la staccionata giù nel cortile.
Un giorno mi spiegarono che era un ospite pericoloso, perché vettore di malattie ed avrebbe potuto, in un gesto inconsulto, mordermi nel sonno. Da allora lo guardai con sospetto, avevo timore della sua bestialità, sapevo di non potermi fidare, sapevo che il mio sonno non sarebbe stato più tranquillo. Tornavo a casa dalla scuola e guardavo sotto il letto, dietro la poltrona, fissavo quell'armadio per ore. Non lo vedevo ma ero sicuro che ci fosse. Quando cominciai a lavorare, la situazione precipitò. La stanchezza non aveva nessun effetto soporifero, anzi le paure tendevano a crescere. Di notte mi perseguitavano strani rumori di legno scricchiolante. Non uscivo più di casa per poter controllare se lui stesse tramando qualcosa contro di me. Avevo perso il lavoro ed ogni forma di contatto con l'esterno. Ero stato ingoiato nella mia stanza dalla sua inquietante assenza.
Dopo notti di continua corrosione ebbi uno slancio di disperazione. Aprendo il cassetto del comodino mi accorsi che era pieno di pallottole di carta. Ne svolsi alcune e comparvero scritte incomprensibili, parole che annotavo la mattina per ricordare ciò che avevo sognato la notte. Fogli pieni di profondi graffi e correzioni, tanto che il primo segno era ormai incomprensibile.

Quel comodino volò fuori dal balcone. E con lui furono trasferiti nel cortile la poltrona, la lampada e i pezzi di cui era composto il letto. Rimasi così solo con l'armadio a muro ed era già di gran sollievo volgere la mia attenzione verso una sola direzione. Ora non mi rimaneva che spingere il vecchio scatolone verso il resto della mobilia. Così non avrei avuto più paura dell'ignota presenza oltre l'armadio, perché l'armadio non sarebbe più esistito. Fu un impresa tirarlo via dalla nicchia in cui era incassato. Lo spazio tra il mobile ed il muro era così angusto che riuscivo a malapena ad inserirvi la mano. Quando giunsi a spostarlo un po' verso l'esterno notai che una mano grondava sangue per le schegge del legno penetrate nel palmo e per i graffi dell'intonaco rugoso sul dorso, mentre l'altra era livida per essere rimasta schiacciata tra l'armadio e il muro durante la manovra. Non furono certo quelle piccole ferite a farmi desistere dalla missione che mi ero prefissato. Quando l'armadio fu finalmente sradicato dalla sua sede, non risultò difficile spingerlo fino al balcone e lanciarlo poi dove i suoi simili lo attendevano.
Improvvisamente caddi a terra stremato e persi conoscenza.
Mi ritrovai in un deserto senza dune e senza sole. Un grazioso tepore. Tutt'attorno un nulla di cui spesso sento nostalgia quando contemplo le cose del mondo: l'abisso negli occhi di un bambino, la vastità dello spazio sul Tubenna, il fuoco sulla spiaggia guardato dal mare denso, la morte negli occhi di un amico, il cielo stellato da un prato di Amsterdam, i Pink Floyd nel tramonto alla torretta di Erchie. Questa sensazione immobilizzò il mio pensiero. Mi sentivo perso in quel deserto, non esistevano direzioni e non sentivo l'esigenza di muovermi. Chiusi gli occhi e potevo finalmente Sentire... il Nulla. Ero libero. Ero lucido. Libero, sì libero di sentire... "Sveglia!"
"Sveglia!" bisbigliò al mio orecchio "Su, svegliati!"
"E' ora di vedere!" sussurrò con la voce di un amante devoto.
Aprii allora gli occhi. Poggiato sulla mia spalla sinistra c'era lui.
I miei occhi erano nei suoi. "Guarda! Guarda!" continuava.
Nei suoi occhi neri l'abisso. L'eco di quella sensazione di deserto mi risucchiava dentro di lui. "Guarda!" ripetè. Staccai con difficoltà i miei occhi dai suoi. Mi voltai.
Ero nella mia stanza. Ormai completamente vuota, fatta eccezione per un grosso specchio là dove c'era la nicchia dell'armadio a muro. Mi avvicinai. Lo specchio era frantumato in più parti. Mi sporsi dietro lo specchio per vedere cosa ci fosse. Non c'era nessuna nicchia, ma un muro liscio. Nessun armadio. Ah... l'armadio!
Andai verso il balcone. Aprii i battenti. Misi le mani sulla ringhiera.
"Guarda! Guarda!" ripeteva dalla spalla. Mi sporsi e guardai giù.
Nessun armadio, ma il mio corpo disteso su un tappeto rosso nel cortile.

Sergio Rinaldi