Tre. Dodici. Orizzontale

Prigioniero.
La sveglia dice con voce sexy “Ciao. Buona giornata amore mio. Sono le sette in punto ed è ora di alzarsi. Non vorrai restare a letto tutto il giorno? Sono passati oggi millenovantacinque giorni. In pratica: ventiseimiladuecentottanta ore, in pratica: un milione e cinquecentosettantaseimila ottocento secondi. Complimenti.” Si ferma un attimo poi scandisce: “Tre. Dodici. Orizzontale.”
“Evviva” dico sottovoce.
Dalla radio della sveglia parte un pezzo dei “Rock on the pop”.
Sarebbe bello sapere che la voce della sveglia è vera. Che quello che dice lo pensa. Invece è solo un mucchio di fili e memorie che io ho istruito a dovere.
Poco più di un disco del tempo che fu.
Prendo il cellulare dal mobile accanto al letto e guardo se è arrivato qualche messaggio. In realtà gia so che non è così, visto che è rimasto accesso tutta la notte e, di certo, con la suoneria a tutto volume come tengo, se qualcuno mi avesse scritto, mi sarei svegliato. In ogni caso cerco di illudermi, di darmi una speranza.
Che muore subito.
L’unica cosa che indica il display è che sono le sette. L’idea di dover affrontare ancora un’altra giornata mi terrorizza. Rimetto il cellulare al suo posto e chiudo gli occhi di nuovo, sperando di tornare a dormire.
Di sparire.
Di disintegrarmi.
Ma cerco solo di rimandare l’ora di alzarmi.
Se non altro, sotto le coperte, fa meno freddo.
Non riesco a riaddormentarmi e dopo un po’ riprendo il cellulare e scorro l’elenco dei vecchi messaggi. L’ultimo è di un mese fa.
E pensare che oggi è un giorno speciale.
Milenovantacinque giorni.
Dodici, orizzontale. In pratica: chiuderò la terza fila.
Wow.

Alle dieci mi alzo e mi accendo una sigaretta. Sento le gambe pesanti e, controvoglia, raggiungo il bagno. Pur avendo tenuto acceso il riscaldamento tutta la notte, il mio appartamento sembra freddissimo.
Mi spoglio e premo il pulsante.
L’acqua inizia a scorrere dalla doccia.
Una voce sexy dice “Ciao amore, la temperatura dell’acqua in questo momento è di trentasette gradi centigradi, trentotto, trentanove…”
Entro nella doccia solo quando sento che l’acqua è bollente e, per qualche istante, provo un po’ di sollievo. Premo il pulsante e stabilizzo la temperatura. Mi appoggio con la schiena alla parete e chiudo gli occhi, ascoltando il rumore dell’acqua. Rimango sotto la doccia per venti minuti e, più di una volta, l’idea di restare lì per sempre non mi sembra una sciocchezza.
Poi mi costringo ad uscire.
Nonostante il bagno sia immerso in una nube di vapore, il freddo mi sembra insostenibile. Mi metto l’accappatoio e mi copro la testa con il cappuccio. Torno in camera e prendo nuovamente il cellulare dal tavolo per vedere se, mentre ero sotto la doccia, qualcuno mi ha chiamato.
Il display non segna nulla.
Mi siedo sul letto, guardando il pavimento.
L’idea di togliermi l’accappatoio e di vestirmi mi spaventa. Rimando di continuo, fino a quando mi costringo a farlo.
Non so come.
Prendo dall’armadio un paio di pantaloni molto larghi ed una maglietta scolorita.
Tanto, chi vuoi che mi veda.
Mi vesto velocemente. Quasi in apnea.
Torno in bagno e mi lavo i denti, cercando di togliermi dalla bocca il sapore di tutte le sigarette fumate il giorno prima.
Meno di cinque minuti dopo però, non posso fare a meno di accendermene un’altra.
Cammino avanti e indietro per un po’, cercando di riorganizzare le idee e di trovare la forza per cominciare.
Tiro su l’avvolgibile. Appoggio la fronte al doppio vetro infrangibile. Vedo l’ala est del palazzo. Un alveare.
Centinaia di finestre come la mia.
Centinaia di esistenze.
Come la mia.
Torno a sedere sul letto.
In realtà vorrei starmene tutto il giorno a guardare il muro, salvo poi accorgermi che sono sempre prigioniero.
Mi lascio comunque tentare dall’idea.
Poi cerco di convincermi che è meglio non farlo.
Tre, dodici. Orizzontale.
Accendo il computer e controllo la posta. Nessuno mi ha scritto. Solo pubblicità a siti pornografici.
Immagino di poter mandare un e-mail. O di poter prendere il telefono e chiamare qualcuno. E’ il mio sogno ricorrente.
Parlare con qualcuno.
Scrivere a qualcuno.
Ci sono delle notti, in sogno, in cui entro in una stazione piena di gente. E’ Natale. Sto andando a trovare i miei. Tutti sorridono e mi conoscono. Pacche sulle spalle. Baci e abbracci. Poi, improvvisamente, un treno esplode, la stazione crolla, la gente muore e resto solo io, solo nel mondo, accanto ad un albero di natale in fiamme. E con un biglietto per casa in mano. Poi la sveglia mi chiama.
Non sento più nessuno da mesi.
E la cosa peggiore è la solitudine che non cerchi.
Decido di mettermi al lavoro e per un po’ riesco perfino a concentrarmi, ma dura poco e mi sorprendo a guardare lo schermo senza fare nulla.
Con un po’ di fortuna posso ancora trovare un motivo valido per affrontare la giornata, per andare avanti fino a sera.
Già, con un po’ di fortuna.
Ma cosa significa adesso questa parola?
Non posso fare a meno di pensare a quando tutto aveva un senso, a quando nell’aria c’era quella strana sensazione che la fortuna avrebbe potuto giocare un ruolo importante nella vita di ciascuno di noi. A quello che ero, prima di diventare quello che sono. E l’unica immagine che mi viene in mente è quella di un bosco bruciato. Trenta anni fa, per lo stesso crimine, mi avrebbero sbattuto in una cella fredda con le sbarre alle finestre. Mia avrebbero costretto a sopravvivere.
Lo spirito di sopravvivenza avrebbe avuto la meglio. In qualche modo ne sarei uscito. Ma così, la maggior parte dei rinchiusi non arriva viva al terzo anno. Gli altri non superano il quinto. Che io sappia nessuno ha mai scontato tutta la pena.
Hai ogni comodità. In pratica: hai tutto.
Ma sei solo.
E non hai niente.
Gli amici dopo un po’ ti dimenticano.
Smettono di telefonarti.
Di scriverti.
E tutti quelli come me finiscono per trovare prima o poi la loro via d’uscita. Certo qui nessuno ti impedisce di ucciderti.
La civiltà si evolve.
Tre dodici. Orizzontale.
Me lo ripeto ancora una volta.
Non riesco a restare a sedere. Mi alzo e vado alla porta d’ingresso.
Il solito rituale.
Provo ad aprirla.
Ma è chiusa.
E perché non dovrebbe esserlo del resto.
Poi il telefono si mette ad urlare.
Rispondo.
Come ogni mattina, una voce fredda, dura, chissà di chi, mi dice:
“Ben alzato, prigioniero numero quarantasette”
Come ogni mese, faccio una croce sul muro e chiudo la fila.
Un altro giorno se ne è andato.
Tre anni. Dodici mesi. Croci in orizzontale.
In pratica: vent’anni ancora, prima di uscire.
Come se fossi convinto di farcela.

Francesco Cortonesi