Il baule

Fin da piccolo l’immagine del baule ha stuzzicato la mia fantasia.
Nonna lo ha sempre avuto con sé, da un trasloco all’altro, nelle varie fasi della sua vita, senza mai abbandonarlo e senza mai permettere ad alcuno di vederne il contenuto.
Quando mia madre si sposò, lei rimase da sola nella grande casa di campagna dove viveva da molti anni; si era trasferita lì dopo la morte del nonno, subito dopo la guerra, e con la più fiera testardaggine ha sempre asserito che lì sarebbe morta. Ovviamente, mamma ha sempre cercato di convincerla ad andare a vivere in città: per lei sarebbe stato molto più comodo tenere d’occhio la vecchia genitrice visto che era così ostinata nel voler vivere da sola. Ma finché seri problemi di respirazione non hanno obbligato la nonna a trascorrere alcuni mesi in ospedale, non c’è stato verso di farla trasferire.
Obbligarla a vivere nel piccolo monolocale al piano terra nel nostro palazzo è stato crudele ma necessario; nonna ha cercato in tutti i modi di convincere la famiglia che preferiva morire piuttosto che andare a vivere in quel bugigattolo, ma alla fine è stata costretta a cedere.
Si è vendicata. Eccome se si è vendicata! Quel piccolo appartamento è diventato una borsa di Mary Poppins in versione abitativa, e noi tutti della famiglia siamo stati costretti a fatiche erculee per stiparci tutti gli ingombranti bagagli della nonna. Non ha rinunciato quasi a nulla. La possibilità di movimento all’interno della casa era limitatissima, ma a lei sembrava non importare visto che riusciva ad avere tutte le sue cose.
E aveva il suo baule. Il trasloco avvenne quando avevo undici anni e per tutto il tempo, oltre a trasportare i colli più piccoli, mi limitai a gironzolare tutto il giorno intorno alla misteriosa cassa.
Nonna lo teneva d’occhio, perché sapeva che ero curioso e alla prima occasione avrei cercato di sbirciarne il contenuto. Era l’unico ricordo del nonno, diceva. Tutto il resto era andato perso durante la guerra, quando la loro casa era crollata sotto i bombardamenti. Nonno era morto quando mia madre era ancora nella culla e non le rimaneva altro di lui. Perciò ci teneva a quel baule e non voleva separarsene né condividerlo con gli altri.

Non lo perse di vista. Alla fine, esausto, crollai addormentato su una delle sue vecchie poltrone. Mi svegliai al mattino dopo, nella mia stanza, dove papà mi aveva trasportato in braccio, finita la sistemazione dei mobili. Il baule era ancora con la nonna.
Passarono una decina di anni. Ogni volta che entravo nella casa della nonna mi tornava alla mente il vecchio baule, ma ciò non capitava molto spesso. Ero andato all’università e lì avevo conosciuto Katia, la mia ragazza, con cui cominciai a convivere al terzo anno di università. Per un po’ di tempo vissi abbastanza lontano da casa.
Poi finalmente arrivò la tesi. Avevo ventisette anni ed ero abbastanza soddisfatto dei miei risultati. Ma pochi giorni prima di quell’ultima emozionante tappa universitaria mamma mi telefonò.
Nonna era morta. La sera prima si era addormentata e non si era risvegliata. Sperai che fosse spirata con naturalezza, senza nemmeno rendersi conto che se ne stava andando: finalmente si ricongiungeva al nonno.
Katia e io tornammo a casa mia per qualche giorno. Mamma era molto triste. Cercammo di risollevarla e le rimanemmo vicini per il funerale.
Papà, dispiaciuto ma certo meno colpito dalla perdita, mi chiese invece un aiuto per svuotare la casa della nonna.
Inscatolammo le suppellettili per gettarle via, infilammo i vestiti nei sacchi per offrirli agli indigenti e procedemmo con lo spostare i mobili. A quel punto notai il vecchio baule, appoggiato al muro accanto a un alto armadio. Mentre papà si occupava di portare via gli ultimi sacchetti per la Caritas, non potei resistere a gettarvi uno sguardo all’interno. Erano più di quindici anni che ne ero incuriosito, ma per rispetto alla nonna avevo sempre resistito allo stimolo di conoscerne il contenuto. Feci scattare la serratura e sollevai il coperchio.
Il ghigno di un teschio ormai ingiallito salutò la mia curiosità finalmente soddisfatta.
L’unico ricordo del nonno.

Simona Cremonini