La sera del 9 ottobre 1963

Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2003 - edizione 2

Ero arrivato al bar mentre si accendevano le luci gialle dei lampioni. Com'era dolce il rosso del bottiglione dopo una giornata a spingere cariole sulla ghiaia. Stavo seduto al tavolino a guardare la telecronaca della partita. Che bravo Di Stefano a fare quegli scherzi col pallone. Ma boia cane e' andata via la luce. Fuori c'e' fracasso, vien giu' dalla valle un temporale da svegliare i morti. La gente esce in strada, le donne cominciano ad urlare. Io resto al buio, accendo una sigaretta e guardo i bagliori dei lampi contro lo schermo spento della televisione. Chissa' se Di Stefano quel pallone l'ha messo in fondo alla rete.
Strano questo vento, sembra l'urlo di un milione di lupi. Poi arriva un attimo di silenzio (che porta il nome della mia morte) ed esplodono tutti i vetri del bar. Sono di quei lupi le mascelle serrate che mi strappano la pelle. Se questo si chiama temporale, il fango e' la sua pioggia.

Volano frammenti di roccia e mi spolpano la carne a brandelli. Sento la fanghiglia che scivola dentro la gola, fino a riempirmi le viscere. Cosi' arriva il buio della notte, lo vedo nella melma che comincia ad uscire dalle cavita' dei miei occhi.
Ritorna il giorno. Seduto davanti alla televisione spenta di quel bar tabacchi, sepolto sotto dieci metri di porcherie. Ecco il mio scheletro con il mozzicone ancora acceso fra le dita. Una fiammella che non si spegne. Della poltiglia delle mie budella, restano striature color porpora, nei rivoli di caffelatte che neache riescono a macchiare gli stivali di gomma di quel gruppo di uomini dalle faccie scure. Camminano dieci metri sopra il mio teschio. Li sento conversare. Si riempiono la bocca con i nomi dei cadaveri allineati sulla sponda del Vajont. Sciacalli.

Francesco Rinaldi