Notti disturbate

Carol si svegliò sbuffando, gli occhi azzurri spalancati e le mani immerse sotto il cuscino. Si aggrappò con tutte le forze al grido che era in procinto di uscirle dalla bocca, costringendolo a tornare a riempire i polmoni. Sospirò battagliando con la coperta che le avvolgeva le gambe, come se fosse rinchiusa in un bozzolo di crisalide. Sentiva caldo, tanto caldo. Le succedeva sempre al risveglio da un incubo. Aveva impressa nella mente assopita il viso di Giorgio, il suo compagno di banco, che le farfugliava qualcosa senza che riuscisse a comprenderne il significato. Forse non lo ricordava, in cuor suo ci sperava tanto.
Il bambino indossava la divisa di classe, un camice che arrivava fino alle ginocchia rallegrato da una fantasia a quadretti azzurri e bianchi ed era scalzo e gocciolava come se fosse appena emerso da una piscina. Muoveva freneticamente le labbra e rivoli d’acqua gli colavano dagli angoli della bocca. Lei rimaneva immobile a guardarlo mentre tutt’intorno volteggiavano fogli di carta stropicciati. Ce n’erano a centinaia, sospinti da un vento invisibile. Giorgio fece un passo verso di lei, le scarpe inzuppate che calpestavano il pavimento come se sprofondassero, e mentre continuava nella sua muta discussione gli si aprirono dei solchi nel collo. Se li ricordava bene, non erano veri e propri tagli. Era come se la pelle del bambino iniziasse ad aprirsi, come se il suo corpo fosse soltanto un guscio contenente un altro essere in procinto di vedere la luce. Poi gli si era staccata la testa. Il capo aveva compiuto mezza giravolta su se stesso ed era caduto a terra rotolando verso di lei, come un teschio che gioca a bowling. Aveva gridato nel sogno e si era svegliata, davanti a lei soltanto il soffitto bianco che le si parava davanti come una innocua parete di nebbia. Le ci vollero pochi minuti per tranquillizzarsi, anche le coperte tornarono presto gradevoli. Era una bambina coraggiosa e nonostante sua mamma le ordinasse di non guardare film dell’orrore lei non resisteva. E quegli assurdi incubi erano il prezzo da pagare.

Respirò a fondo e si mise ad ascoltare. Amava il sibilo della notte e la luce che filtrava dalla finestra, strisce di quel blu inimitabile, che le regalavano i lampioni fuori lungo la strada. Un lontano tintinnio di bottiglie giunse dal piano di sotto, poi un tappo che si stappava e infine il silenzio della bevuta. Suo padre amava concedersi una golata di latte dopo aver fatto l’amore con la mamma e lei era felice di conoscere aspetti così intimi dei genitori. Attese qualche minuto, sicura di riuscire a sentire lo sportello del frigorifero chiudersi, ma non successe. Suo papà doveva averlo accompagnato premurosamente per evitare le vibrazioni delle bottiglie. Sorrise ed ebbe il tempo di udire il frullio di un pipistrello che esplorava le persiane chiuse della finestra prima di riaddormentarsi.

 

La luce del frigorifero illuminò per qualche secondo una sagoma massiccia rivestita da un pesante giaccone di pelle nera. La donna trangugiò metà lattina di birra in un sorso solo e richiuse accuratamente lo sportello. Nessun tintinnio. Abbozzò un sorriso con labbra ruvide come una superficie desertica, pulì alla bene e meglio la lama del pugnale sulla manica della giacca e si voltò verso il corpo dell’uomo, riverso sul pavimento e con indosso il pigiama che doveva essere stato azzurro e probabilmente fresco di cassetto. Ora il sangue che gli sgorgava dalla gola squarciata gli inzuppava il petto come una spugna immersa in una bacinella di vernice rossa. Altro sangue si andava allargando sotto di lui come un mantello scuro. Centinaia di spruzzi maculavano il ripiano della cucina e il lato destro del frigo, gocce rosse grandi quanto noci che si andavano coagulando, prove di un peccato ancora non esausto. La donna immerse la mano destra nella tasca e ne estrasse un foglio stropicciato, racimolato da un bloc-notes come quelli che si lasciano accanto alle cornette del telefono per appuntarci numeri di telefono, indirizzi e liste della spesa. Lo studiò assorta. In inchiostro blu e calligrafia parecchio insicura c’era scritta una lista di nomi. La maggior parte di questi erano tagliati in due da una riga orizzontale. Gli ultimi due, uno maschile ed uno femminile, erano ancora lindi. La donna intinse il dito in una delle numerose macchie sparse per la cucina e cancellò il penultimo nome dalla lista. Ripose il foglio nella tasca e si diresse verso la porta che dava nella sala e conduceva alle scale per il piano superiore. Ora sarebbe salita a terminare il lavoro.

 

Carol si destò di soprassalto. Un rigagnolo di saliva tiepida le scendeva dall’angolo della bocca. Era madida di sudore, percepiva il cotone della camicia da notte incollato alla schiena. Un altro brutto sogno. Tentò di ricordare, analizzare, dimenticare. La prassi era sempre quella, forse doveva dar retta alla mamma e smetterla con quei film...
Un mugolio.
Sbarrò gli occhi. Rimase immobile, concentrata e all’ascolto. Forse erano i suoi genitori, forse stavano facendo l’amore, forse il papà si era infilato nel letto e aveva svegliato la mamma con un bacio e...
Un tonfo.
I piedi del letto matrimoniale picchiavano contro le piastrelle del pavimento. Sì, ne era certa, un rumore identico a quando giocava alla lotta con il papà ed esageravano e il lettone sussultava e cozzava sul fondo liscio della stanza. Si portò una mano alla bocca, il respiro che si andava affannando la infastidiva. Non voleva avere paura, non c’era nulla di cui spaventarsi. Niente di niente, era una notte come tutte le altre. E allora perché il tuo caro paparino non è venuto a rimboccarti le coperte e a baciarti in fronte? Lo fa sempre quando scende di sotto o non riesce a prendere sonno, lo sai vero?
Silenzio.
Poi un altro tonfo, questa volta più leggero. Credette di esserselo sognato.
Di nuovo un mugolio, più strozzato del precedente.
Si alzò infilandosi frettolosamente le pantofole e uscì dalla stanza. Forse il babbo si era sentito male, probabilmente non volevano spaventarla e non l’avevano svegliata... ma allora perché la porta della cameretta era aperta? Avrebbe udito facilmente la mamma singhiozzare ed avvertire l’autoambulanza e i suoi genitori erano attenti ad ogni dettaglio. La sua mente volava rapida, cercando una risposta logica, una scappatoia. I suoi piedini invece se ne infischiavano e la conducevano rapidi verso la camera dai genitori, la camicia da notte ondeggiava ad ogni passo. Il corridoio era più buio della cameretta e i quadri appesi ai muri sembravano finestrelle nere affacciate su mondi paurosi. Raggiunse la porta della camera dei genitori, quasi del tutto accostata, e si fermò ad ascoltare.
Ancora quel mugolio, ora discontinuo. Strinse le mani in una morsa sudaticcia, respirò a fondo e aprì la porta.
La mamma era appesa al lampadario, legata dal collo con una spessa corda scura. Penzolava come un sacco, i piedi nudi dritti e immobili e un bavaglio a incatenarle tutto il terrore che poteva gridare. Aveva gli occhi chiusi e per un attimo, un attimo solo, a Carol parve che stesse dormendo.
- Mamma... - sospirò con un filo di voce la bambina.
La sagoma umana accanto al letto si voltò verso di lei. Era massiccia e nera, i capelli rasati e spalle mastodontiche. Aveva il volto grigio come il marmo e quattro graffi che le tagliavano trasversalmente la faccia dalla guancia sinistra sino all’angolo della bocca. Una mano abbandonata lungo il fianco stringeva quello che restava di un foglietto di carta. Guardò la bambina e poi portò il dito indice alla bocca intimandole di fare silenzio, poi si diresse verso di lei procedendo carponi sul letto, come un gigantesco orso alla ricerca di una nuova preda. La donna evitò i piedi intirizziti della mamma che penzolavano nel vuoto, come quando si entra in uno scantinato abbandonato e si evitano le ragnatele colme di polvere e insetti rinsecchiti. Raggiunse la sponda opposta del letto matrimoniale e si mise a sedere, fissando Carol. Non le era mia capitata una piccolina così coraggiosa. Neanche un grido, neanche una lacrima.
La bimba non toglieva lo sguardo dal corpo della mamma, che continuava la sua torsione attorno al lampadario. Ora ne vedeva la spalle e la schiena, ritta e rigida in modo così innaturale. La camicia da notte era rimasta agganciata a qualcosa (forse gli slip) e lasciava scoperte quasi del tutto le cosce e una parte di glutei. La bimba salì sul letto e raggiunse le gambe della mamma, sistemò la camicia da notte e si asciugò una lacrima che finalmente voleva dare il suo contributo alla vicenda.
Carol accarezzò la pelle ancora calda di quelle gambe che un migliaio di volte l’avevano cullata e ospitata. Allungò le mani verso il lampadario come se volesse interrompere quella notte e tagliare quella corda spessa e scura e ricominciare da capo, magari scendendo di sotto prima di addormentarsi, assicurandosi che porte e finestre fossero ben chiuse o addirittura telefonando alla polizia. Quante cose avrebbe voluto rifare di quella giornata ma si sarebbe accontentata di ripetere all’infinito quella manciata di tempo che aveva trascorso felicemente con i genitori, la cena e il momento del caffè quando se ne stavano riuniti tutti e tre sul divano e lei a fare da cameriera e porgere le tazzine bollenti e profumate. Sì, le sarebbe bastato rivivere. Anche soltanto una volta e sussurrare nell’orecchio di suo papà che gli voleva troppo bene per trovare le parole giuste, e abbracciare la mamma e stringerla così forte da farle mancare il respiro.
- Tua mamma mi ha chiesto di non farti del male - sussurrò la donna, ancora seduta sul bordo del letto e rivolta verso la porta. Carol rimase a sua volta immobile dinanzi il corpo della madre. Le parole della donna le si spezzavano addosso come onde che si infrangono su di un insormontabile muro di cemento.
- Mi ha pregata di non farti del male, mi ha implorata mentre le stringevo la corda alla gola. -
Fuori il sole illuminava appena i tetti delle case, creando un timido alone grigio dietro gli alberi del viale.
- Però ho un atroce dubbio, un dubbio che mi attanaglia le viscere - continuò la donna, alzandosi in piedi e posizionandosi alle spalle di Carol - un giorno vorrai vendicarti di tutto quello che ho fatto, e io sarò troppo vecchia o addirittura morta e allora cercherai la mia bambina e questo non posso permetterlo, sei conscia di questo? - strillò ed era la voce della morte che parlava. Carol sorrise alla mamma mentre un braccio forte come l’acciaio le cinse la gola. Sentì odore di gomma, di mille lavori fatti in casa, di pugnali ghermiti e di anime scippate. La presa si chiuse sul collo della bambina prima gradualmente, poi più forte, e il respiro le volò via. Abbandonò le braccia alla camicetta da notte e si abbandonò alla morsa dell’assassina, come una bambola di pezza stretta inconsciamente durante un profondo sonno. La donna pregò in silenzio e uscì furtivamente dalla villetta. Sua figlia la aspettava a casa, e non vedeva l’ora di raggiungerla.

Marco Cattarulla