Giocondo

A minuti esordirò ufficialmente nella mia nuova professione, ma prima ho voluto scriverti. Guardo la mia mano che si muove su questo foglio e non mi sembra mia: mi appare come la mano di un altro.
Credo dipenda dal fatto che ho immaginato per troppo tempo di celebrare questo rito. L’immaginazione consuma la realtà, e viceversa. Poi c’è una cosa che è fatta sia di realtà che di immaginazione: la memoria. Ed è a lei che devo affidarmi in questo momento...
A quei tempi tutti avevano la stessa opinione: io non ero un bambino, ma un angelo. Un pargolo così apollineo, etereo, rarefatto, che sembrava quasi dovessi ascendere al cielo da un momento all’altro, mischiandomi con ciò che mi era simile, come spinto dall’Amore Empedocleo.
Avevo pochi anni e già sapevo leggere, ero un vero bambino prodigio. Inoltre fu subito chiaro a tutti quali sarebbero stati i miei studi una volta che fossi diventato adulto: la teologia, la filosofia, il trascendente...
Ma se ero diverso dagli altri bambini, va anche detto che allo stesso tempo mi mancava qualcosa.
Fu il vecchio Alfonso che convinse le mie dieci madri a consultare un medico. Era un mio lontano parente: un brav’uomo, ignorante ma lavoratore.
Il parere dello psicanalista fu che in casa c’erano troppe donne per un bambino solo, e a lungo andare avrei subito la mancanza di una figura paterna. Si poteva rimediare, però, comprandomi un orsacchiotto.
E fu allora che tu entrasti nella mia vita. Ricordo ancora la prima volta che ti ho visto, appena terminarono di scartarti. Ti guardavo male: tutti i bambini sono un po’ fisiognomi, figuriamoci io!

E scoprii presto di non essermi sbagliato: perché, se io apparivo un bambino molto apollineo, tu eri un orsacchiotto decisamente dionisiaco. Avevi deciso di approfittare della mia innocenza per fare i tuoi sporchi giochi sotto le lenzuola...
Ma trovasti chi seppe tenerti testa. Dopo una settimana passata a dormire con me, comunicasti alla più anziana delle mie madri il tuo responso: - Preferisco essere l’orsacchiotto di Michael Jackson.
Così ti trasferisti negli Stati Uniti, illudendoti di poter sfuggire a ciò che tu stesso avevi creato. Immediatamente, con un walkie-talkie, mi misi in contatto con i miei compagni ludici americani, e i miei ricatti ti raggiunsero anche lì. Stremato, dopo neppure un mese mettesti fine ai tuoi giorni, sparandoti con una pistola giocattolo.
Giocondo era il tuo nome; uccidermi o farmi uomo la tua missione. Credo si possa dire che facesti entrambe le cose. My love, non ti dimenticherò mai. Sei tu che mi hai insegnato il gioco della vita, sei tu che mi hai fatto esordire nel campionato mondiale dell’orrore, in cui le partite si disputano di nascosto, ed è vietato parlarne se non vuoi rimanere solo. Per una settimana, in un letto moderno, combattemmo la più antica delle lotte: quella dell’orrore che vuole sopravvivere all’orrore. E mi ricordo benissimo, sai, la strofa che mi ripetevi fra un attacco e un contrattacco:
- Ogni cosa, sulla Terra, è la figlia di una guerra.
Vero: con parole leggermente diverse, lo sosteneva anche Eraclito. Eppure adesso io dovrò predicare la pace, e anche la purezza. Sarò pacifista, ambientalista, conformista... Fingerò di stupirmi davanti alle brutture del mondo, e di indignarmi verso i peccatori che si macchiano di evasione fiscale.
Ma dentro di me saprò la tua lezione, e la terrò a mente. Sta’ tranquillo: non la rivelerò mai a nessuno. Se ucciderti è stato come tagliarmi le unghie, tradire il nostro segreto, al contrario, lo riterrei davvero infame. Distruggerò perfino questa lettera che ti sto scrivendo: ne farò un aeroplanino e la lancerò nel mondo, confidando nell’antico gioco del vento: soffiare la verità da un uomo all’altro, in modo che ognuno possa inventare il suo paravento per non riceverla, e continuare a fingere. Fingere, recitare: in inglese “to play”, in Francia “jouer”, giocare.
- Don Glauco...
Qualcuno ha appena interrotto i miei pensieri, entrando timidamente in sagrestia. Lo guardo: è un uomo ormai vecchio, lavoratore ma ignorante. Si chiama Alfonso, ed è costretto a dare del lei al bambino a cui una volta dava gli scapaccioni. Perché quel bambino ora ha studiato, ha un titolo, un ruolo nel gioco: mentre lui non lo ha mai avuto, e sarà per sempre una pedina mossa dagli altri a proprio piacimento.
- Che c’è? - gli chiedo.
- I fedeli aspettano. I chierichetti non avevano il coraggio di venirla a chiamare, e così... sono venuto io.
Lo fisso negli occhi. Non riesce a sostenere il mio sguardo, e distoglie il suo indirizzandolo verso il pavimento della sagrestia: l’ho domato. Anche lui, adesso, è un altro mio giocattolo.
- Non ti preoccupare, ho fatto: cominciamo subito.
Ma la messa, per me, è già finita.

Vincenzo Manna