Ero un cucciolo

Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2003 - edizione 2

Il mio corpo effondeva ancora nell’aria l’odore tiepido di quella fanciulla e la mia retina, in modo armonico, seguitava a riflettere i suoi giovani seni appena assaporati e quei glutei densi e così ondeggianti che scriverne ancora oggi mi riesce faticoso.
Dovrei dire poi che qualcosa di terribile avvenne ma che non è onesto ripetere cosa fu. Ma non ci riesco. E’ un macigno troppo ingombrante per lasciarlo intatto.
Ricordo che chiusi la porta di quella angusta dimora lasciandomi dietro il chiarore oscuro di una luna troppo sferica. Sentii poi un alito di vento sibilante e mi ritrovai nel buio solitario della mia stanza. Misi il chiavistello, mi avvicinai alla branda e le venature incandescenti di due pupille incavate si sollevarono dal mio letto.
Così mi apparve quel servo del vampiro, con gli occhi infossati, le sopracciglia folte ed unite tra loro, peli sui palmi delle mani e sulle piante dei piedi, mani larghe, un dito medio eccezionalmente lungo.

Il ricordo ancora oggi mi risveglia dei brividi impalpabili su tutto il corpo e il senno che in quegli attimi principiò a pulsare così rabbiosamente oggi continua a lacerarmi il cuore.
Non mi ricordavo più come si ammazzavano i licantropi.
Bastoni di frassino, croci, pentole di zolfo.
Il mio pensiero era inebriato dall’erba fumata con la mia piccola e il cuore pervaso dai troppi calici di assenzio bevuti per stupirla.
Mi saltò addosso fissandomi con quegli occhi scintillanti di luce lunare in un pianto affascinante e misterioso e istintivamente presi il paletto appuntito dall’uscio di legno e con tutta l’energia che avevo glielo conficcai nel petto.
E’ così che l’ho ucciso. D’impulso. Senza ricette o stregonerie.
Non sapevo che fosse mio padre. I primi peli cominciarono a infoltirmi il petto ancora adolescente soltanto dopo molti pleniluni.

Gabriele Betti