Uomo morto che cammina

Uscì sul balcone. I pantaloncini verde ospedale, la canotta dalla scollatura larga e le ciabatte in plastica blu. Per un attimo lei continuò a digitare sulla tastiera come se non si fosse accorta di nulla, poi alzò lo sguardo con spavalderia e lo fissò. In quei cinque minuti di occhiate scambiate attraverso le inferiate di una finestra, con nuvole scure che schermavano il cielo dalla luminosità di un pomeriggio di mezza estate, si delineò il resto della sua vita. Si alzò dalla seggiola allontanandola da sé con un colpo di reni e si avvicinò alla finestra. La chiuse. Ma non chiuse fuori il suo destino.

 

L’uomo rientrò nella stanza inebriato dalla boccata d’aria fresca respirata sul balcone poco prima, e rincuorato dalla vista di lei ancora china sul portatile a digitare fiumi di parole. Il televisore sussurrava ancora, dalla stanza da letto, le note arrabbiate di un video di Marylin Manson. La sigaretta emise uno sbuffo di fumo quando l’accese stringendola tra le labbra e gli offuscò l’occhio sano, che prese a lacrimare copiosamente. La birra lasciata sopra allo schienale della poltrona traballò e infine si rovesciò sul finto velluto color verde militare, quando lui, con un balzò, si accomodò. Sul tavolino davanti a sé un barattolo di colla appiccicato alla superficie nera e lucida e brandelli di un quotidiano trivellato qua e là da colpi di forbice. Era tempo, pensò, era tempo di farsi avanti.

La cassetta della posta ne aveva sputata fuori un’altra. L’ennesima lettera minacciosa, realizzata con ritagli di giornale come avrebbe fatto un bambino, trasudante parole confuse e improperi rivolti verso la sua persona. Sollevò lo sguardo verso la finestra che fino al giorno prima le aveva mostrato il patetico panorama di un uomo orbo e innegabilmente malato di mente che studiava ogni sua mossa. Sorrise a se stessa, in un ghigno che poteva essere isteria dovuta alla tensione o anche qualcosa d’altro… qualcosa di meno definito nascosto nelle pieghe del pareo azzurro mare. Come sempre si infilò nella doccia quella sera, pronta a gustarsi un piatto di pasta fredda e il film noleggiato il pomeriggio giù in paese. Le finestre dei vicini erano tutte illuminate dal riflesso giallastro di un televisore, solo la luce al terzo piano della casa di fronte rimase accesa, fino a tarda ora. La fissò per quasi mezz’ora, seduta com’era sul divano in pelle, mentre gettava occhiate disinteressate al film noleggiato, e poi al telegiornale di mezzanotte. Infine si addormentò, con un braccio sotto la nuca rannicchiata contro il bracciolo.

 

Il temporale giunse violento e inaspettato. Un temporale d’agosto pieno di vento e fulmini e tuoni, grondante di pioggia. Da lontano il mare rombava coprendo il rumore dello speaker televisivo che annunciava la replica di un telefilm. La sveglia sulla credenza segnalava che non mancava molto all’alba, anche se il buio copriva ancora le strade.
Qualcosa, su in terrazzo, rotolò rumorosamente, così decise di salire per ancorare le seggiole di plastica e le poche altre cose che avrebbero potuto essere spazzate via dal vento. Un soffio di aria di bufera la invase quando aprì la porta a vetri che portava all’esterno. La terrazza riluceva come uno specchio, invasa com’era da una patina d’acqua. La luce esterna non voleva sapere di accendersi, così si avventurò a piedi nudi sulle piastrelle, stringendo gli occhi per meglio identificare le sagome scure degli oggetti. Radunò le sedie impilandole l’una sull’altra, e infine si voltò verso le scale per rifugiarsi al coperto. Ed ecco che una figura eretta davanti a lei si materializzò, facendole cadere tutto di mano. Il ghigno guercio si fece strada attraverso la luce fioca di una torcia, e pronunciò poche, inquietanti sillabe: “Eccoti qui!”.
La mano sinistra impugnava una cintura di cuoio da uomo, con la fibbia brillante alla luce dello spicchio di luna spuntato tra le nubi. “Ti aspettavo!” bonfochiò l’uomo avvicinandosi. La ragazza si fece sfuggire un sorriso per nulla spaventato, quasi arrogante nella sua posizione,e poi sussurrò, portando la mano dietro la schiena ad afferrare il manico di un coltello da macellaio “ti sbagli… io aspettavo te!”.

Stefania Costi