La scuola

La scuola si staglia come un blocco squallido, anemico sul fondale notturno, alla luce nebbiosa della luna. Ma non posso piu' vederla da fuori: il mio? solo il ricordo di quella notte. La rivedo dentro, con i suoi corridoi soffocanti di strani odori e le sue ossessionanti prospettive di porte e finestre in file identiche. E vivo ogni istante i suoi sotterranei, cadenti e dimenticati, e tuttavia disgustosamente vivi... Sono la mia nuova casa, da quella notte a cui si fermano i miei ricordi.
Ricordo quando i ragazzi della scuola cominciarono a sparire... Non e' che sparissero nella scuola, o perlomeno non era logico pensarlo, perche' risultavano assenti fin dall'inizio: eppure, per una sensazione inspiegabile quanto presente e diffusa, tutti eravamo convinti che la scuola c'entrasse qualcosa.
Fin dai primi casi nacquero voci: si diceva che gli scomparsi fossero stati coinvolti nel giro di una nuova droga sconosciuta... Si parlava di rumori soffusi, tonfi e gemiti lontani e quasi impercettibili che, da quando erano iniziate le scomparse, si udivano provenire da sotto i nostri piedi... Dal sotterraneo, che era chiuso da anni perche' inagibile.
Di certo sapevamo solo, e lo vedevamo dall'espressione disperata negli occhi dei custodi ogni mattina, che quando qualcuno spariva, il giorno dopo la sua aula veniva trovata devastata, come se una forza innaturale l'avesse messa a soqquadro. Poi, lentamente ma inesorabilmente, le voci presero una forma fin troppo concreta... Le scomparse aumentavano giorno per giorno; alcune aule erano poco piu' che spettrali ammassi di legno frantumato e ferraglia contorta, desolate, deserte.

Eppure, nessuno faceva niente... Continuavano gli stessi riti di normalita', gli appelli, le lezioni, i mal di testa e le fughe annoiate nei bagni; anzi, da dietro le cattedre e le porte delle stanze fumose destinate al ricevimento provenivano chiari incoraggiamenti alla mediocrita' e al silenzio, come se solo l'indifferenza avesse potuto proteggerci da quel quadro di follia.
Del resto nessuno era scomparso dentro la scuola, e loro non perdevano un'occasione per ricordarcelo. Guardavamo sempre piu' con odio e disprezzo chi portava avanti un simile teatrino; ma ci guardavamo anche fra noi con espressioni che erano di panico e idiozia, perche' neanche noi stessi sapevamo rompere la svogliata rassegnazione di quel circolo assurdo. Ogni frase era un sussurro strozzato, ogni sorriso una paralisi grottesca e sarcastica; la vita spontanea dei nostri gesti si era mutata nella meccanicità dei fantasmi.
"Gli scomparsi ci fanno paura" mi disse Carlo, il mio migliore amico, uno degli ultimi giorni "perche' sono come in un limbo: non sai se sono vivi o morti; se andranno via in pace dando pace anche a noi, o se invece un giorno torneranno a scuotere nel sonno la nostra coscienza... In fondo forse noi siamo gia' come loro".
E uno dei ricordi piu' vividi che conservo e' di quando fu proprio Carlo a scomparire: allora decisi freddamente che in qualche modo lo avrei seguito... Che sarei stato il prossimo.
Per questo andai a casa sua, e non dimentichero' la dolcezza e l'affetto con cui sua madre mi permise di frugare fra le sue cose. Ricordo la fiala, nascosta in una piccola intercapedine, che oltre a Carlo conoscevo solo io: una fiala di vetro trasparente, lunga e stretta, simile a come avrei immaginato lo strumento di un alchimista, con dentro i rimasugli di una polvere dal colore malato e indefinibile... E un biglietto, caduto nell'atto di tirare fuori la fiala, scritto in una calligrafia a me estranea, che diceva solo: "Dove immagini, saremo..."
Ci andai. Andai alla scuola ed esplorai quei labirinti gia' freddi e inospitali di giorno al chiarore della notte... E a un tratto mi bloccai, sorpreso da un forte tramestio, come un rumore intenso di oggetti pesanti spostati, al piano di sopra.
L'angoscia di vedere, di sapere, supero' l'istinto di fuggire e conservare quella realta' parziale e quella visione a meta' fra dubbio e speranza. Dopo mesi di inerzia, ora la verita' mi spingeva verso un finale terribilmente incerto, ma definitivo.
Fu solo grazie al rumore potente, insistente, che riuscii a orientarmi nel buio, salendo a rotta di collo la scala malmessa, inciampando decine di volte nella dura consistenza dei gradini... Dolori e imprecazioni che servivano a mascherare il resto. Senza rendermene conto, ero arrivato alla porta della mia classe, e attraverso il suo sottile spessore potevo sentire tutto cio' che puo' provocare un ciclone in un ambiente cosi' ristretto: schianti, cigolii, il secco frastuono del legno e lo stridio delle scintille metalliche, e un incalzante grattare contro il muro, come se giganteschi ratti stessero erodendo l'intonaco puntando a me.
Poi, in un attimo, tutto cesso'... Non ricordo quanto sono stato li', in piedi, ad ascoltare il mio respiro pesante, rendendomi conto che dall'altra parte stavano rispondendo i sospiri affannosi delle cose che fino a quel momento si erano accanite con rabbia nella distruzione della stanza. Ma improvvisamente, come fosse cambiato scenario, mi sorpresi ad aprire la porta. Fui quasi avvolto fisicamente dal silenzio che regnava nell'aula, ad eccezione del momento in cui la porta si chiuse discretamente alle mie spalle.
Intorno a me si stringeva un'ombra, piu' densa e scura di quella della notte, e accorsi di essere circondato da scherzi della natura confusi e deformi: solo adesso che sono tale e quale a loro riesco a comprendere come un tempo quella figure fossero state come me... Persone forse vive, forse morte: scomparsi.
Non riuscivo a scorgerne i volti, ne' i dettagli delle fattezze fisiche, ma intuivo i loro profili gobbi e massicci, i contorni fusi e contorti dei loro arti, il luccicare dei liquami putrefatti che coprivano la loro pelle.
Reso quasi insensibile da una sensazione che non era paura, ma uno stordimento come ipnotico, sobbalzai appena quando uno di loro, con una voce roca e pastosa, mi rivolse la parola.
Mi disse che la "droga" mi avrebbe reso cio' che volevo essere: non quello che credevo di voler essere, specifico', ma proprio quello che, nella piu' profonda e inesplorata regione di me, avrei desiderato diventare. Guardandomi intensamente, o almeno cosi' credo, mi mise in mano una fiala lunga e stretta, piena di una polvere che rilasciava una debolissima fosforescenza; un palpito soffuso, che pero' mi distrasse a tal punto da non farmi accorgere che ero rimasto solo nella stanza, a parte la creatura che mi aveva parlato, ferma sulla soglia. Poi anch'essa volto' le spalle e se ando', dicendomi che ero libero di scegliere.
E io, liberamente, accettai.

Tommaso Sorbetti Guerri