Una prova

Il vecchio giaceva di schiena sull'erba bagnata, braccia e gambe spalancate, immobile nella penombra della sera. Soltanto la gamba destra - dal ginocchio in giù - era immersa nella pozza di luce di un lampione. I capelli grigi spuntavano scompigliati dal cappello di feltro piegato sotto la testa. La cravatta appariva come un serpente colorato in agguato sul terreno. Gli occhiali (un modello di corno passato di moda) erano rimasti sollevati in verticale, appoggiati a un ciuffo d'erba. Poco oltre, a lato della strada, alberi spogli e gocciolanti d'umidità sembravano muti testimoni indifferenti.
Sotto la pioggia che si faceva insistente, tre uomini lo guardavano, concentrati.
Il più alto, sui quaranta, che indossava una pesante giacca Barbour, incrociò le braccia sul petto.
«E ora?», domandò.
Gli altri lo fissarono senza parlare.
L’uomo alto si rivolse allora al più giovane, chiuso in un giaccone di cuoio che la pioggia rendeva lucido, le scarpe da ginnastica infangate, e che da un paio di minuti si mordeva le labbra.
«Puliscilo e poi gettalo via», gli ordinò.
L’asfalto risuonò del tintinnare del coltello; la lama rimase a risplendere alla luce del lampione. Preso da un ripensamento, il giovane si chinò e lo raccolse, ma la voce dell'uomo alto, come una scudisciata, lo bloccò: «Se lo hai pulito per bene non ha importanza dove lo lasci. Sta bene lì».
«Forse dovremmo...», si riscosse il giovane.
«No», tagliò corto l’uomo alto.

Passò un’auto in lontananza. I fari illuminarono per un attimo il gruppetto, poi proseguirono oltre la curva, oltre lo steccato, oltre il dosso, a rischiarare incostanti il prato che digradava fino al bosco. Quando fu scomparsa ritornò il silenzio e, con esso, il senso di un tempo immobile carico di tensione.
Il terzo uomo, che non aveva ancora parlato - e in realtà c’era qualcosa di risibile nel suo ergersi impettito contro il vento del temporale - fece due passi indietro per meglio osservare la figura distesa. Sembrava un esperto che valutasse un dipinto che non lo convinceva. Appariva più afflitto per il suo costoso cappotto inzuppato che per il corpo allungato ai suoi piedi. Si massaggiò il mento con la palma, con un movimento in diagonale. Scosse il capo ed emise un lungo sospiro.
«Brutto affare», dichiarò, grave.
Tra le nubi scure comparve una luna tonda e luminosa. Sembrava veleggiare a gran velocità nel cielo.
«Ma insomma, perché non ce ne andiamo?», sbottò il giovane. «Cosa restiamo a fare qui?»
L’uomo alto non gli badò. Si chinò sul corpo del vecchio e, con le mani protette dai guanti di pelle, prese a frugargli nelle tasche dell'impermeabile. La destra riemerse stringendo un portafoglio logoro. Ne tolse un documento; lesse un nome. Rimise il documento nel portafoglio e il portafoglio nella tasca. Si rialzò. Consultò l’orologio, poi serrò le labbra, pensieroso. Si vedeva bene lo sforzo per imporsi la calma di chi lotta contro il tempo e l'impazienza. Alla fine si accese una sigaretta e si allontanò in silenzio verso lo steccato ai bordi della strada. Oltre lo steccato cominciava la notte.
Il giovane insistette: «Cristo! Che aspettiamo a levarci di torno?!» Ma non si mosse. Quello con il cappotto elegante lo guardò di sottecchi, per nulla impressionato dalla sua foga. Scuotendo la testa ribadì: «Gran brutto affare».
Ritornò il silenzio. Ognuno era immerso nei propri pensieri. L'uomo alto esaminava la strada, il prato e gli alberi al di là dello steccato, i chiaroscuri creati dai lampioni, una luminaria natalizia che si accendeva intermittente su un albero a lato della via - abbandonata tra i rami come se qualcuno ve l'avesse scaraventata -, le pozzanghere e le impronte lasciate dagli pneumatici della loro vettura sul terreno viscido di fango. Considerò le orme che avevano lasciato spostandosi sul terreno molle, l'erba piegata, i rami spezzati, il riquadro d'asfalto asciutto sotto l'auto. Valutò la posizione appartata e l'oscurità del luogo. Si irrigidì, tendendo l'orecchio al rumore di un'auto che però continuò lungo la via principale, senza disturbarli. Pensò - non senza un amaro divertimento - che sarebbe bastato che una macchina si fermasse, una qualunque, attratta da quell'insolito gruppo, per mandare ogni cosa all'aria. Un caso, una fatalità, e tutto avrebbe preso una piega disperata. Strinse le labbra e abbassò per un momento gli occhi.
Il giovane allora fece una cosa strana: si piegò in avanti, si coprì la bocca con una mano ed emise un risolino soffocato. Aveva cercato di non farsi notare, ma l'elegantone se ne accorse. Sorrise anche lui, per poi tornare subito serio, sorpreso lui per primo di quella reazione. Imbarazzati, fissarono entrambi l’uomo alto, di nuovo concentrato, che fumava con i gomiti appoggiati allo steccato. Ma questi non badò loro. Stava guardando il vecchio disteso: un braccio tremava e dalla bocca sembrò uscire uno sbuffo di fastidio. Spense la sigaretta e la infilò in tasca, lo raggiunse e si accovacciò sui talloni. Il braccio era tornato immobile.
Il giovane ridacchiò di nuovo, nervoso, ma il silenzio dei suoi due compagni lo indusse a smettere.
Passarono i minuti. Lontano, sulle colline, si accesero le prime luci; presto, passato il temporale, il pendio ne sarebbe stato ricoperto, e avrebbe scintillato contro il nero profondo della notte.

Una coppia di fari si avvicinava. L'uomo alto si sorprese a domandarsi con freddo distacco se anche questa volta la vettura sarebbe passata oltre o se si sarebbe fermata.
L'auto - un modello sportivo di lusso - rallentò e accostò sul bordo della carreggiata, senza spegnere il motore.
Nulla si muoveva. Si udiva solo il borbottare soffocato del tubo di scappamento e il disperdersi dei gas di scarico che si condensavano al freddo. Gli sguardi dei tre erano calamitati dal finestrino e dalla portiera del conducente. Ma nessuno accennava a scendere. L'abitacolo era buio e nulla si muoveva.
Il giovane guardò l'uomo alto che, però, appariva pietrificato. Dava l'impressione di un'immensa energia cristallizzata un momento prima di essere liberata. La sua immobilità ricordava la pazienza crudele del felino. Le luci dell'addobbo natalizio gli coloravano a intermittenza il volto.
Per un intero minuto non accadde nulla, e per un momento sembrò che l'auto potesse ripartire. Poi, però, il motore si spense e la portiera si aprì con uno scatto metallico che risuonò fragoroso nella notte.

L'uomo alto si esaminò i vestiti. Aggiustò la piega dei pantaloni e si passò le dita tra i capelli per rimetterli in ordine. Gli altri due ansimavano. Li esaminò, suggerendo come e dove dovevano rimettersi in ordine. Poi tornò allo steccato.
«Andiamocene», disse di nuovo il giovane, guardandosi intorno, stavolta con angoscia.
«Rimani dove sei. Quando si ha poco tempo mai avere fretta».
L'uomo alto si accese un'altra sigaretta e si mise a riflettere. Godeva della velocità rigorosa dei suoi pensieri.
Dentro, era un girare vorticoso di ingranaggi. Fuori, sembrava addormentato. Rimase senza muoversi per un tempo che parve interminabile.
Di colpo si rianimò; si staccò dalla palizzata e tornò verso i due.
«Ecco cosa faremo», cominciò.

Un’ora dopo, nel caldo confortevole del ristorante, i quattro osservavano il cameriere che deponeva i vassoi con la carne. Aveva calcato in testa un improbabile berretto da Babbo Natale, ma l'espressione era quella di chi non avesse sorriso una sola volta in parecchi giorni.
«E così», disse il vecchio, quando il cameriere si fu allontanato, attaccando allegramente l'arrosto incurante dei vestiti infangati, «alla fine avevate deciso di scaraventarmi giù per il dirupo». Inghiottì il boccone e si ripulì l’angolo della bocca con il tovagliolo. «Bravi. Begli amici».
L’uomo alto lo guardò al di sopra del bicchiere di vino. «Se mai si renderà necessario farlo, lo faremo», confermò.
«Perfezionista!», lo canzonò quello del brutto affare, di buon umore (il suo cappotto giaceva ripiegato con cura su uno dei termosifoni e sprigionava un velo d'umidità). «In fondo era soltanto una prova».
«Uccidere non è difficile», sentenziò l'uomo alto controllando distrattamente che le posate fossero pulite (era un locale alla buona, come ce ne sono tanti sulle colline, dove alle volte l'igiene lascia a desiderare). «Il problema è mantenere i nervi saldi, pensare in fretta ma con lucidità. Ragionare senza farsi prendere dal panico. Controllare, riflettere, valutare. Controllare di nuovo. Assicurarsi di non lasciare tracce. Individuare le vie di fuga. E naturalmente disfarsi del cadavere». Bevve un sorso di vino. «Ed è meglio esercitarsi prima di trovarcisi sul serio. Meglio provare per tempo le difficoltà sul campo, piuttosto che annaspare poi nel momento decisivo. E fallire».
«Sdraiato sull'erba bagnata come un tordo impallinato mi sarò buscato un malanno», si lamentò il vecchio. «Passerò le feste a letto. Però non ho fatto un brutto lavoro, vero? Voglio dire, sono stato realistico, no?»
«Sei andato bene», concesse l'uomo alto.
«A un certo punto però ti sei mosso», fece notare l'elegantone.
Il vecchio allontanò l'obiezione con un gesto della mano. «Avrei voluto vedere te allungato come un sacco nell'erba bagnata. Avevo il fango che mi entrava nel colletto e un ramo che mi faceva solletico a un polso. Non vi decidevate mai».
«A me a un certo punto è venuto da ridere», confessò il giovane, che aveva già bevuto tre bicchieri e aveva lo sguardo appannato.
L'uomo alto lo fissò diritto negli occhi. «Sì, me ne sono accorto», disse, freddo.
Alla fine il conto lo pagò il giovane.

Fuori, nel posteggio, la nebbia avvolgeva le poche auto parcheggiate e velava le tre o quattro finestre illuminate del paese.
L'elegantone si piegò sul baule della loro vettura, dal quale proveniva un gemito soffocato.
«E ora?», domandò, con un sorriso che aveva qualcosa di sarcastico.
«E ora», rispose l'uomo alto aprendo lo sportello, osservando il rado nevischio che aveva iniziato a cadere, «un po' di pratica».

Claudio Vergnani