Il seme immondo

Vi sono solitudini che ringhiano incomprese da chi le saggia goccia a goccia, traendone il nettare amaro che è in loro. Nei loro silenzi celano storie dimenticate, scritte con il sangue incidendo carni inermi, su cui prendono forma orribile le trame del male.
Nella penombra, chiari soffitti sconosciuti si aprivano sopra un volto magro dai lineamenti secchi e aguzzi. La donna giaceva supina nel piccolo letto dalla struttura metallica, con lo sguardo vacuo perso nel vuoto di un doloroso oblio. Cercava di ricordare ciò che le fosse successo prima di finire in quel piccolo ospedale di provincia, ma lo sforzo le provocava solo un forte dolore alla testa. Gli unici elementi che sembravano dire qualcosa di lei, erano il suo ventre rigonfio pregno di una nuova vita e quel nome, Sveva, come aveva sussurrato di chiamarsi, cercando di intendersi con dottori e infermieri che non parlavano la sua lingua.
Non ricordava nemmeno chi fosse, aveva solo un vaga reminiscenza di quello che le sembrava un tremendo incubo; una figura vestita di nero che appariva dalle ombre fatta di oscurità pura, poi una lugubre litania, un tavolo freddo e Dio... schifosi esseri striscianti dalle molte zampe che le infestavano il corpo in una oscena violenza carnale. Le era difficile non storcere il viso in una smorfia di ribrezzo, in preda al solo affiorare di quella terrificante reminescenza.
Con quelle immagini vivide nella mente strinse gli occhi, irrigidì i muscoli girandosi su un lato cercando di fuggire da quelle disgustose sensazioni. Fu allora che si rese conto dell’altra strana cosa e abbassò il viso verso il suo ventre cingendolo con le mani. Era come se dentro di lei si sentissero distintamente due cuori che battevano fuori sincrono. Lei non aveva mai avuto figli, almeno per quel che poteva ricordare, ma non credeva che potesse essere una cosa normale che il cuore del bambino potesse battere in modo così anomalo.
La sua vicina di letto russava lievemente alzando le coperte al suo respiro affannoso e aritmico. Sveva tossì, sentiva una certa raucedine alla gola che non gli dava tregua, niente di grave ma se fosse persistita avrebbe suonato all’infermiera. Nel suo stato confusionale tutto le pareva ingigantirsi e opprimerla pesantemente, stringerla alla gola come una morsa angosciante. La tosse si intensificò, la sua vicina di letto fece un movimento convulso facendo stridere le molle ruggini, forse si era svegliata, ma questo le importava poco. Il suo disagio crebbe sentendo la sua voce tossire nel silenzio... si alzò a sedere sul letto, forse le sarebbe passato, niente, allora si diresse in bagno. Quando fu in piedi si accorse che le girava molto la testa e per poco non cadde, appoggiandosi “in extremis” al freddo muro. Restò un attimo immobile sentendosi molto debole prima di arrivare nello stretto bagno dalle piastrelle chiare senza nessuna decorazione. Si sedette con qualche difficoltà sul water e defecò, poi si soffermò un momento vedendo il suo volto riflesso nello specchio. Notava ora per la prima volta una strana vena gonfia alla base della sua tempia sinistra. Scostò i capelli chiari e lisci, sembrava pulsare... no, sembrava più muoversi!
Distolse lo sguardo per un attimo, poi riguardò e vide che tutto il volto appariva segnato da rilievi, increspato da sporgenze in movimento... ma non erano vene. In preda alla paura si alzò le maniche della camicia da notte, anche le braccia... era come se sottopelle fosse percorsa da vermi o serpi. Quelle forme gonfiavano la pelle del suo corpo torcendosi sotto di essa.
Urlò spezzando il “sacro” silenzio ospedaliero, mentre dentro il suo ventre, qualcosa cominciò a dimenarsi convulsamente provocandole tremendi dolori. La sua vicina mugugnò qualcosa nel letto spazientita e si alzò andando verso il bagno.
<Ma insomma che c’è stai male? Capisci le mie parole, la mia lingua s-t-a-i m-a-l-e -?> disse appoggiandole una mano sulla spalla mentre le parole le morirono in bocca.

L’altra donna stava appoggiata al muro con la bocca schiumante di una sorta di melma verdastra dall’odore nauseante, che le macchiava tutta la camicia. I suoi occhi erano sbarrati, sembrava che quasi le volessero scoppiare fuori dalle orbite colmi di vene rosse, inesorabilmente storpiati in una muta richiesta aiuto.
Avvicinandosi cautamente l’altra le disse piano: <Dio santissimo, ma che hai... mi capisci? Chiamo i dottori... arrivo...>
Sveva ebbe dei forti conati di vomito e rigurgitò sul pavimento un liquame scuro, in cui vide con orrore che si contorceva una matassa di serpenti fini e neri. Gemette, cercò di fare qualche passò, ma cadde a terra in preda a convulsioni che sembravano distorcerle il corpo stesso. Braccia e gambe si storpiavano andando contro il normale orientamento delle articolazioni di un corpo umano. Sbatté la testa contro il lavandino ma il colpo non fu abbastanza forte da farla svenire. Restò vigile per tutta la durata della sua tremenda agonia.
La sua compagna di stanza aveva schiacciato ripetutamente il segnale, bisbigliando un insieme di preghiere e imprecazioni, fissando la fenditura luminosa che scorgeva dalla porta semi aperta del bagno. Cosa diavolo stava succedendo là dentro? Pensava la donna con un rivolo di sudore che le scendeva dalla tempia.
I suoi occhi percepirono ombre grottesche che si stagliarono nella penombra, mente forme strane strisciarono silenziose verso di lei.
I due infermieri di turno erano nello stanzino delle medicazioni, lei seduta sul lettino si era già tolta la camicia, mentre lui le baciava i capezzoli turgidi - comodo il turno di notte se sei in giusta compagnia - al sentire il segnale di aiuto lei si irrigidì, mentre lui continuando le disse che sarebbero andati dopo. Il senso del dovere stranamente prevalse in lei e scostandolo con fatica si rivestì velocemente esortandolo lui (non molto d’accordo) a fare lo stesso.
Giunti nella camera buia, subito furono colpiti dal puzzo di marcio che impregnava l’ambiente, chiusero la porta e accesero la luce. Dinnanzi ai loro occhi si manifestò uno spettacolo che non si avvicinava minimamente ai loro incubi più truci.
Sveva era in piedi, appoggiata al letto, la testa china in preda a forti tremori. Una scia di sostanze viscide faceva presagire ai due, che si fosse trascinata lì dal bagno. Da sotto la camicia da notte un denso liquido vischioso e rossastro gli colava copiosamente da in mezzo alle gambe. Assieme ad esso il pavimento era infestato da scarafaggi, vermi, serpi viscide e insetti dalle molte zampe che si muovevano velocemente andando a nascondersi sotto gli spartani mobili della stanzetta. Grosse mosche nere e pelose uscivano dalle piaghe purulente nelle sue carni, ronzandole intorno in maniera frenetica, formando quasi una leggera foschia oscura intorno al suo corpo.
La donna quando vide i due infermieri allungò una mano cercando di emettere dei suoni che assomigliassero a parole sensate, riuscendo però solo a produrre bassi e innaturali vagiti. Protendendosi in avanti si sbilanciò, scivolò e cadde al suolo con il volto nella pozza di liquame putrido da lei generato.
I due erano pietrificati, un rumore strano come un battere di molte mandibole, il rosicchiare frenetico, li fece girare lo sguardo pallido. L’orrore si incrementò a dismisura quando videro sull’altro letto un corpo parzialmente scarnificato, avvolto da una membrana rossastra e disseminato di grandi vermi bianchi che si stavano cibando delle sue carni. La povera vicina di letto era spolpata e le sue carni fumavano producendo un intenso odore di carne bruciata e marcia. La sua mano destra stringeva ancora il telecomando del segnale di richiesta aiuto.
La ragazza raccogliendo tutto il suo coraggio e altruismo (evitando la trattenuta dal maschio) si avvicinò alla donna per terra, che con uno scatto gettò la testa in avanti, poi all’indietro. La gola le si gonfiava come se qualcosa cercasse di uscire da essa facendosi largo nell’esofago. La sua bocca si aprì in modo innaturale e lo sforzo fu tale che con un grottesco schiocco mascella e mandibola uscirono dalle loro sedi originarie. Le labbra tese avevano perso tutto il loro colorito e si tagliavano ingigantendo la bocca. Sei zampe chitinose e segmentate fuoriuscirono da essa muovendosi all’impazzata a sondare l’aria. Gli occhi della donna lacrimavano disperatamente, manifestando appieno tutto il terrore da cui non poteva sfuggire.
L’infermiera si ritrasse istintivamente, ma non fu abbastanza, urlò quando le appendici si allungarono con uno scatto e le ghermirono il volto strappandole l’intera pelle del viso. In preda al delirio e al dolore la ragazza si ritrasse correndo verso il suo giovane amante. I muscoli sanguinolenti del volto si contraevano in una maschera anatomica mostruosa. Il ragazzo si girò in preda al panico cercando di uscire, ma la porta sembrava inesorabilmente e immancabilmente bloccata. L’infermierina dopo aver fatto pochi passi verso il suo compagno stramazzò al suolo in una pozza di sangue, gorgogliando in preda ai sussulti che precedono la morte.
Sveva intanto riversa a terra esplose un violento flotto di sangue dalla vagina, mentre il ventre pulsava e si contraeva in preda a forti spasmi muscolari. Stretto all’angolo della porta il povero giovane fissava la scena, mentre ai suoi piedi si dimenava ancora il corpo delle sua (ex) ragazza.
La camicia da notte di Sveva si macchiò di sangue mentre qualcosa si faceva largo, spingendo da sotto le carni, lacerando il suo addome per sfociare in una blasfema parodia della nascita. Una nuova eruzione di liquidi zampillò dal corpo violentato della donna, a seguire un basso brontolio proruppe divenendo progressivamente un alto stridere. Un groviglio di zampe d’insetto prese a lacerare le carni di lei, mentre altre appendici artigliate cercavano di dare libertà all’abominio infernale che era cresciuto nel suo corpo.
Qualcosa che assomigliava ad una testa allungata, colma di protuberanze ossee, uscì, avvolta in una membrana vischiosa. La creatura si liberò dimenandosi della mucosa che l'avvolgeva, rivelando una pelle liscia, viscida, anche se cosparsa in alcuni punti da protuberanze simili a scaglie dure. La cosa curva, restò un momento immobile, per metà fuori dal corpo esanime della donna che tremava freneticamente al ritmo della morte. Due paia di ali membranose, che in un primo momento erano ripiegate come quelle di una farfalla appena uscita dal bozzolo, si aprirono in tutta la loro estensione.
Il corpo ospite orrendamente divelto giaceva a terra in una posizione anomala, in una pozzanghera di liquami immondi in cui strisciavano esseri ripugnanti.
L’infermiere urlò, incredulo di fronte all’incubo che stava vivendo, poi si accasciò piangendo alla porta cercando di scansare gli insetti putridi che gli salivano sulle scarpe.
L’essere infernale si era trascinato fuori dal ventre che lo aveva accolto, cresciuto e generato, dirigendosi velocemente verso di lui. Il suo andamento era impreciso, ondeggiante, poteva assomigliare allo strisciare di un verme, anche se si aiutava con le sue molte zampe strette e lunghe. Faceva penzolare la testa senza occhi aprendo due grandi bocche verticali bavose e irte di zanne. Le braccia munite di artigli si aggrappavano al pavimento aiutandosi nel suo bizzarro procedere, mentre le ali si spiegavano spargendo le sue spore velenifere nell’aria ormai irrespirabile.
Il mostro fu presto sull’inerme giovane, agguantandolo con alcuni tentacoli lo strinse per la gola mentre protuberanze affilate gli aprivano il basso ventre per cibarsi delle interiora. In un attimo lo avvolse, quasi inglobandolo nel suo corpo molle, simile a quello di un orrendo verme piatto cosparso da escrescenze di ogni tipo unite da ampie membrane.
Il giovane non urlò nemmeno, probabilmente morì d’infarto qualche secondo prima dell’attacco del demone.
Un terribile rumore di masticazione e risucchi osceni provenne per qualche minuto dall’orribile scena. Dopo pochi minuti da un angolo buio della camera, l’oscurità parve condensarsi in un grumo di nero assoluto e palpabile. La tenebra stessa sembrò flettersi e piegarsi, prendendo la forma di un uomo alto, completamente vestito di una tunica nera che assomigliava non a tessuto ma a pelle vischiosa e vivente. Le sue forme erano incerte anche se l’insieme era un orribile parvenza d’incubo. Un sibilo quasi impercettibile increspò l’atmosfera irreale di quel luogo infestato. La bestia si staccò dal suo pasto dirigendosi velocemente verso quella apparizione, emettendo bassi latrati e suoni che l’orecchio umano non è adatto a ricevere.
Quando la creatura strisciò via, il corpo dell’infermiere era spogliato da carne e muscoli, lasciando solo un sanguinolento scheletro deturpato e riverso per terra.
Dopo avere raggiunto l’altro essere demoniaco, il nascituro strisciò sul suo corpo, finché fu sorretto da strane mani magre, anch’esse nere e viscide, le cui dita finivano con lunghi artigli ricurvi come lame. La figura oscura tenne in braccio la mostruosa creatura, quasi amorevolmente, come fa un padre con il suo figlio appena nato.
Da fuori dalla camera cominciarono a sentirsi un brulicante vocio, una progressiva agitazione e i rumori dei tentativi di aprire la porta.
L’oscurità ancora una volta si piegò distorcendo lo spazio, inglobando le figure e riportandole nella loro dimensione abissale.

Fabio Ciceroni