Pochi forse
    sanno che, dietro l'espressione proverbiale "avere gli scheletri nell'armadio"
    si cela un inquietante fatto di cronaca occorso nei primi anni Cinquanta in Italia.
    Il fatto, all'epoca, ebbe una vasta risonanza non solamente sui quotidiani locali ma anche
    su quelli nazionali ed esteri, tanto che, per molto tempo non si parlò d'altro nelle
    piazze italiane - la televisone, all'epoca funestava ancora poco con la sua ossessiva
    presenza - e un autorevole giornalista di cronaca nera coniò questa singolare espressione
    proverbiale per imprimere nella memoria collettiva un fatto, che per la sua efferatezza
    non aveva certo precedenti.
    La memoria, si sa, tende però presto ad obnubilare tutto il dolore e l'orrore che non
    può contenere, che non può razionalmente comprendere, e si costruisce così una cortina
    mnemonica di immagini solari, estati, partite di calcio, elezioni politiche che si
    sovrappongono a quella diapositiva lacera, oscura, urticante serbata negli archivi oscuri
    dei nostri pensieri, a doppia mandata: Giovanni Beccafumi, un intero albero genealogico
    alle spalle stabilmente impiegato nella professione d'impresario di pompe funebri, aveva
    rilevato l'azienda, senza troppo entusiasmo per la verità, dopo la prematura morte del
    padre.
    Il ragazzo non aveva mai avuto un buon rapporto con il danaro, ed ogni qualvolta aveva tra
    le mani quel frusciante demone di carta lo dilapidava in spese folli quanto inutili;
    figuriamoci quando si trovò a dover gestire un'azienda dal fatturato così rilevante,
    dove ogni spesa - bare in zinco, in legno, corone di fiori, manifestini mortuari 
 -
    doveva essere calcolata con assennata parsimonia ed occhio vigile.
    Il padre, in letto di morte, ben conoscendolo, al chiarore sommesso di una candela che
    andava presto estinguendosi, gli mise una mano gelida dietro il collo e gli soffiò sul
    viso: - Giovannino, giudizio! Giovannino! giudizio! I morti esigono senno e rispetto!
    Soprattutto rispetto! -
    E così spirò tra le sue braccia, in una lattiginosa notte di gennaio.
    Ma Giovannino ben presto dimenticò quei tetri ammonimenti, finalmente libero di annusare
    la leggera aria primaverile che circondava la monolitica palazzina dell'impresa, fuori,
    finalmente fuori dalle anguste e ammorbanti salette in radica scura dove aveva passato
    gran parte della sua infanzia tra improbabili balocchi.
    Era troppo preso dai divertimenti, le feste fino a tarda notte nelle balere; ma
    soprattutto le donne, si quelle stesse donne che fino ad allora lo avevano deriso e
    snobbato per quella insolita professione, ed ora che, intravedendo il pollo da spennare,
    lo lambivano sempre più da presso con lascive carezze e strusci mozzafiato allacciati in
    twist vorticosi, nel lago di cemento rischiarato da nude lampadine multicolori duranti le
    notti di maggio, la massa del bosco intorno scossa dalle oscure brezze notturne, una luna
    sgozzata nel cielo marmoreo.
    Per ingraziarsi quella ambigua corte di giovani e giovanette che s'ingrossava sempre più
    alle sue spalle Giovannino decise allora di assumere un atteggiamento sempre più
    trasgressivo: cominciò con l'acconciarsi alle feste nelle ville in collina, con paramenti
    e fogge usate dai becchini nei solenni trasporti funebri al camposanto; poi decise di
    accontentare quella folla biecamente adorante e plaudente con trovate boccaccesche sempre
    più bislacche che creassero attorno a lui un alone di mistero e fascino.
    Tutti quegli inutili orpelli, strumenti del mestiere paterno che fino ad allora lo avevano
    piegato in pratiche quotidiane abituali - ma come poteva mai un bambino abituarsi, rendere
    parte del proprio patrimonio d'esperienza, il foderare con panni rosso l'interno delle
    bare, distendersi come modello al loro interno bianco, i morti infanti, per vedere se
    "calzavano", rasare, vestire, oppure, peggio, truccare i cadaveri ancora
    freschi? Come poteva? Ora finalmente, quegli stessi ferri del mestiere, sino ad allora
    presenza ingombrante, divenivano un prezioso strumento di seduzione e non più di
    allontanamento dalla congrega giovanile, come in passato.
  - Becccaossa! Beccossa! - lo chiamavano da piccolo, una bimba un giorno, per S.Valentino,
  nel cortile della scuola elementare gli regalò l'osso rosicchiato di un cane
  infiocchettato da un nastro nero e, davanti al suo sguardo incredulo, si era allontanata
  poi nella mattina azzurra scossa da una nervosa risata infantile, eppure feroce, che
  talvolta lui ricordava ancora talvolta la notte, malinconicamente, come l'eco protratta di
  una crudele persecuzione sonora.
  Cominciò con il far scorrazzare sul carro funebre dell'impresa per le stradine
  addormentate del paese donnine e giovinastri che rovesciavano bottiglie di giallo liquore
  sulle poltrone di raso, si distendevano con le mani incrociate nel vano posteriore,
  incorniciato da quattro lumini elettrici, salvo poi alzarsi di scatto sorridenti dinanzi
  ad atterriti automobilisti che seguivano l'oscura sagoma del carro.
  Poi però non gli bastò più e alzò pericolosamente il tiro: subaffittò bare di ogni
  dimensione per claustrofobici e eccitanti amplessi a due, tre, quattro persone, organizzò
  macabri festini all'interno della silenziosa impresa con tanto di lumini disseminati per
  l'intero perimetro, ed infine, sommo sfregio agli ammonimenti paterni, invitò i giovani e
  le giovani nelle stanze più riservate dell'azienda: sotto un freddo cono di luce il
  giovane, osservato con improvvisa ammirazione dalle donne, come il sacerdote di un nuovo
  culto misterico, prese la chiave gelosamente custodita nella scrivania in noce, aprì la
  cella frigorifera, e depose alcuni cadaveri ancora brinati sulla lastra marmorea per la
  vestizione.
  Nel silenzio assoluto, rotto da qualche risatina nervosa di circostanza degli astanti, tra
  le fotografie di avi, famiglia e santi protettori che campeggiavano sulla sobria
  tappezzeria a fiori scuri delle quattro pareti, tra longilinei candelabri e svettanti
  crocefissi da parata funebre, Giovannino additò silenziosamente i cadaveri ignudi non
  ancora depilati, poi guardò ghignante i compagni di gioco e li invitò ad accoppiarsi con
  quelle fredda membra ...
  I meno audaci rifiutarono inorriditi, alcune donne scelsero più semplicemente di
  esercitarsi nel trucco della propria persona utilizzando il sembiante dei defunti,
  ovviamente quelli presentabili, non deturpati da orrende ferite incidentali. Altri, non
  soddisfatti, aiutandosi con una puntita lama intercostale chirurgica - alcuni cadaveri si
  sà, col tempo tendono a gonfiarsi, e solerti becchini, l'impresa Beccafumi non era da
  meno, per farceli stare completamente nella costosa bara già prenotata su misure
  convenzionali, praticano, di sotterfugio, amputazioni preventive e ricompongono così il
  cadavere a mò di puzzle perfettamente inguainato nella bara - dicevamo, decisero di
  mutilare quei cadaveri, portandosi a casa orribili trofei anatomici da usare a mò di
  portacenere, o più semplicemente come attaccapanni nel patio d'ingresso.
  Nessuno tra i giovani in paese fece parola ai genitori di quei macabri rendez-vous, le
  ambigue parole di minaccia del resto, ora ironica, ora seria pronunciate a denti stretti
  da Giovannino - vi chiudo tutti nella cella frigorifera! - erano più che sufficienti a
  sigillare le bocche di tutti.
  La pacchia non durò però lungo, ben presto le finanze dell'impresa Beccafumi divennero
  sempre più esigue, scarne come i cadaveri, la cui manutenzione cominciava ormai a venire
  meno: Giovannino era stato infatti ormai costretto a licenziare tutti i suoi
  collaboratori, alcuni lavoravano lì da più di trent'anni e il mettersi la paraffina
  sotto il naso per l'olezzo, era una pratica ormai più abituale che sorbire l'aroma del
  caffè mattutino.
  Sul fare dell'alba, affondato nell'austero scranno paterno, ogni giorno nel chiarore
  ancora incerto proveniente dai vetri schermati a vista sul garage aperto che ospitava bare
  e carri funebri d'ordinanza, Giovannino segnava febbrilmente con il lapis rosso i conti,
  cercava audaci soluzioni, sconti, materiali più economici, ma non c'era nulla da fare:
  l'azienda era destinata allo sfascio.
  Corone di fiori addossate alle pareti cominciavano a gualcirsi e ad emanare un odore, che
  misto ad un altro dolciastro, più sospetto, proveniente dalla cella dove l'impianto
  refrigerante difettava, ammorbava ormai le stanze della palazzina. Nuovi cadaveri - non
  c'erano stati così tanti morti come quella estate, colpa del caldo che faceva collassare
  gli anziani più cagionevoli di salute - vestiti di tutto punto in gessati confezionati
  dai parenti venivano abbandonati dai facchini nel retrobottega in bare di legno
  improvvisate, appena coperta da ora lenzuola, ora da mensali da cucina.
  Sciami di mosche cominciarono a dirottare sempre più eccitate negli interni muti delle
  stanze. Poi fu la volta di qualche gatto, che, intrufolatisi nottetempo da chissà quale
  pertugio, se ne fuggiva zizzagando ebbro di gioia mentre addentava crani guasti, o bulbi
  oculari con il loro corredo di nervi ottici penzolante sul pavimento marmoreo dove
  lasciavano una orrenda scia scoperta ogni alba con raccapriccio da Giovannino.
  Giovannino che continuava a riempire le bare da tumulare con pietre, in sostituzione dei
  corpi, riuscì per qualche tempo a mantenere la calma, ma occorreva sbarazzarsi al più
  presto dei cadaveri: si rivolse a qualche contadino, cui fece visita nottetempo nelle
  cascine ai piedi dei monti: qui al chiarore di lampade a olio, tra il greve tanfo di
  letame, contrattava sottobanco la propria carne umana come mangime triturato da dare ai
  porci, i quali però, dopo l'iniziale curiosità per la variazione del menù abituale di
  ghiande, iniziarono a mostrarsi schizzinosi rifiutando la pietanza.
  Il viaggio di ritorno, nella notte lunare, con i cadaveri che nel vano posteriore del
  carro funebre opportunamente schermato da sguardi indiscreti, sobbalzavano regolarmente a
  ogni buca della strada come fantocci, aumentava il nervosismo di Giovannino che ben presto
  sfociò nella paranoia ossessiva: contattato il farmacista di un paese non troppo vicino
  al proprio, si fece vendere una cospicua quantità di acido muriatico, barattandola con
  una preziosa teca reliquiaria d'argento.
  A casa, nella vasca da bagno color aragosta, sotto il chiarore di una lampadina nuda
  penzolante dal muro, cominciò a innaffiare con quel liquido i cadaveri, osservandoli poi
  lentamente squagliarsi in una sorta di crepitio incessante di bollicine e spruzzi
  salmastri. Ancora non bastava, allora si diede a bruciarne qualcuno sulle colline di
  notte, ma gli alti falò emananti odore di carne abbrustolita ben presto insospettirono
  molti che additavano sempre più spesso quei sinistri chiarori notturni.
  Una notte Giovannino, completamente fuori di senno, inalare i fumenti della carne umana in
  decomposizione può dare stati d'allucinazione - lo sanno bene i membri della setta
  segreta tedesca denominata "Tule" che nella Westfalia si davano a oscuri riti
  propiziatori per il Reich del Fhurer- si appartò nella cucina.
  Qui prese coltelli di ogni dimensione, un tritacarne, frantoi, seghe semi circolari,
  finalmente sapeva cosa fare di tutta quella carne, uno sguardo folle gli illuminò il viso
  ... La mattina che la polizia e il brigadiere vennero a cercare Giovannino nella
  palazzina, finalmente qualcuno dei giovani si era deciso a spifferare, inizialmente non lo
  trovarono: cercarono per ore e ore ma invano.
  L'accusa notificata era precisa: scempio, maltrattamento di cadavere, violazione di
  domicilio con effrazione. Già, perché Giovannino, una calda notte d'estate aveva fatto
  il giro di tutte le villette solitarie del paese con il suo furgoncino e qui, lontano da
  occhi indicreti, aveva raggiunto le camere da letto dei compaesani aiutato da una scala a
  pioli: nella luna piena i gatti sui tetti videro una sagoma con una voluminosa sacca sulle
  spalle penetrare all'interno: Giovannino aveva riempito i cassetti, i bauli, gli armadi,
  persino i frigoriferi, di tibie, anche, teschi non del tutto scarnificati, una festa
  dell'orrore che scioccò tutto il paese in un mattino che nessuno, ancora con gli occhi
  cisposi, assonnati alla ricerca cieca a tentoni dei pantaloni, o di un bricco di latte nel
  frigo, dimenticò per molto tempo ...
  Il brigadiere alla fine, insospettito, decise di forzare la cella frigorifera, la cui
  serratura era stranamente inceppata: al suo interno fu trovato Giovannino pallido,
  congelato, il suo corpo nudo giaceva sopra un cadavere di donna; la polizia mortuaria
  faticò non poco a divincolare i due cadaveri, il membro di Giovannino resisteva infatti
  ancora eretto nelle fessura della donna.
  Forzatamente recluso in quella cella, Giovannino, che non era più riuscito ad aprire la
  porta inceppata, imprecando inascoltato per giorni e giorni, dopo essersi nutrito per
  qualche tempo dei propri escrementi e di carne umana, aveva scelto per sé quella fine
  
 "Avere gli scheletri nell'armadio!