L'estate che uccisi mio nonno

di Luana Vergari - pagine 126 - euro 9,90 - Nicola Pesce Editore

Il viaggio in auto dalla Francia all’Italia per raggiungere il paesino del nonno e presenziare al suo funerale si trasforma in un’avventura, quando il piccolo protagonista e la sua famiglia vengono rapiti. Il bambino, convinto di essere da poco diventato un Supereroe come il suo idolo dei fumetti “Invisible Super Guy”, ci racconta la sua versione dei fatti, con la schiettezza e la semplicità che solo i bambini sanno regalare.
Questo libro parte bene. Intanto con una dedica bellissima, poi con un punto di vista del tutto originale. E scatta immediata la curiosità di scoprire come un bambino di sei anni possa interpretare il misterioso mondo degli adulti.
Sia detto che scrivere dal punto di vista di un bambino è difficile. Anzi, è difficilissimo. È molto più difficile dello scrivere per un bambino. Intanto perché un bambino di quell’età non scriverebbe (d’accordo, qui si tratta della trascrizione di una registrazione, quindi di un parlato). Poi perché riprodurre fedelmente i ragionamenti di una testolina di sei anni è un’impresa titanica.

Luana Vergari, coraggiosamente, ci prova, ma ahimé non convince fino in fondo.
Innanzitutto c’è la questione del linguaggio, non sempre coerente. È chiaro che alcuni termini verranno storpiati dal piccolo protagonista, ma sembra strano che il figlio di due dentisti non sappia dire anestesia (e dica invece “anestetizzazione” - che è pure più difficile da dire), mentre sfoggi un “temono” e poi “colmo” e addirittura “acquoso” e “mareggiata”. Va anche considerato che qui si tratta di un bambino di sei anni bilingue (nato e vissuto in Francia, con madre francese e padre italiano). Un bambino che decide – e lo dichiara espressamente – di parlare in Italiano affinchè il nonno possa capirlo. Dovrebbero esserci nel suo linguaggio molte più interferenze dal francese e molte più incertezze. È vero, il nostro piccolo amico dichiara di parlare in Italiano con il padre, ma la lingua che studia a scuola, e verosimilmente quella in cui legge i fumetti del suo amato eroe, dovrebbe essere il Francese.
Compare poi qualche vocabolo in Inglese: in alcuni casi le parole vengono giustamente storpiate (gianfud per junk food e Chi Bi per Kill Bill), in altri invece sono stranamente scritte in maniera corretta. A mio parere, per coerenza stilistica, andrebbero almeno scritte come si pronunciano, perché immagino che il protagonista non sia in grado di scriverle correttamente.
Il punto di vista del bambino risulta invece più credibile quando si tratta di riprodurre le interpretazioni dei fatti della vita, come la morte del nonno, la pericolosità del bagno rispetto alla doccia, le differenze tra maschi e femmine. In questi casi l’autrice riesce a focalizzare l’attenzione su particolari insoliti e certamente a far sorridere.
Ma anche la solidità della trama va a intermittenza. È vero che si tratta sempre del punto di vista di un bambino, a cui potrebbero mancare tasselli importanti nell’interpretazione dei fatti, ma la storia dà la netta impressione di zoppicare parecchio.
Il rapimento stesso, che dà il via al racconto, non sembra avere molto senso, né ce l’ha il fatto che i rapitori si portino appresso in auto due persone legate e imbavagliate senza che nessuno noti nulla e nessuno parta al loro inseguimento. Sembra molto tirata per i capelli anche la reazione del protagonista: per quanto creda di avere i superpoteri, com’è possibile che non lo spaventi neanche un po’ vedere i suoi genitori imbavagliati e minacciati con una pistola? Va bene il conflitto con la madre-arpia, ma... un conflitto così forte a sei anni?!? Stento a crederlo: per i marmocchi di quell’età di cui ho esperienza la mamma gode ancora di una divina venerazione.
Inoltre convincono assai poco un improbabile scambio di armi e un ricatto ancor più improbabile.
La narrazione risulta nel complesso piatta e anche quando ci sono colpi di scena, non vengono preparati dall’adeguata suspance.
I refusi qua e là (per es. anestetizzazione scritto a volte con una z sola, a volte con due; valige senza la i, goccie con la i) sono troppi per un libro così corto e per una storia in cui il lettore deve già fare i conti con un registro linguistico particolare e una punteggiatura usata con fantasia.
In definitiva: un’idea buona che manca di credibilità.
Voto: 5,5
[Blackstar]

Incipit
Adesso il mercoledì e il venerdì pomeriggio la mamma mi accompagna dal Dottor Michen perché gli devo raccontare quello che mi è successo.
Il Dottor Michen non è un dottore vero come uno che ti cura quando hai la febbre o la diarrea o ti sei preso una malattia. Lui cura solo le cose che stanno nella testa come per esempio che ti vengono sempre tutte le furie o che non vuoi mangiare più niente come è successo a me.
All’inizio non ci volevo andare dal dottor Michen ma poi ho cambiato idea perché è simpatico e non fa le punture o delle cose così.
Anche papà è contento che vado dal dottor Michen e certe volte mi viene a prendere anche lui con la mamma e andiamo a mangiare insieme la pizza in un posto che sta vicino al lago e mi piace stare lì che si possono vedere sempre i colori belli del tramonto e fuori hanno delle luci gialle appese allo steccato e se non fa freddo puoi uscire per guardare da vicino.