di Enrico Annibale Butti - pagine 192 - euro 13,00 - Keres
Ci troviamo di fronte a un libro scritto nel 1893 da un autore prematuramente lasciato nel dimenticatoio. Butti, attivo drammaturgo di inizio Novecento, ci trasporta in una claustrofobica Pavia per narrare la storia dello studente milanese Alberto Sàrcori.
Alberto è un ragazzo vivo e pieno di interessi, prossimo alla laurea in medicina e reduce da una relazione sentimentale burrascosa, intrecciata con la moglie di un suo amico.
Una sera, in occasione di una cena a casa del Maggiore Laerti, rimane folgorato dalla pacata bellezza della figlia di lui: Giovanna.
Comincia a frequentare casa Laerti con assiduità nell’intento di far cedere la ragazza alle sue insistenti lusinghe. Giovanna si mostra da subito molto riservata ed estremamente taciturna, comportamento che non fa che stuzzicare la curiosità del giovane che si troverà sempre più smanioso di conoscere i sentimenti di lei.
Da subito c’è chiaro che Giovanna nasconde qualche segreto e si muove tra le pagine attorniata da un costante alone di mistero.
Si tratta di una classica ghost story affrontata con stile raffinato e ricercatezza lessicale, come ci si aspetta da un autore d’altri tempi. Il ritmo è molto lento e la storia prende, fin dalle prime battute, una piega decisamente introspettiva. L’anima che infesta il racconto non è solo uno spirito non meglio identificato, ma anche la stessa anima del protagonista catapultato in una roulette russa di sentimenti contrastanti. Alberto è lacerato da una lotta continua tra razionalità tipica di un uomo di scienza e l’innegabilità degli eventi sovrannaturali che lo vedono coinvolto.
Arriverà perfino a perdere il lume della ragione, a vagare smarrito in uno stato di semi follia dilaniato dal dubbio, in preda a visioni orribili che non sa se classificare come allucinazioni o spaventosa realtà.
Un libro consigliato a chi cerca una classica storia di fantasmi ricca di approfondimento psicologico.
Voto: 7
[Eleonora Della Gatta]
Incipit
Questo è il racconto incredibile e pure esatto della tremenda malattia, che mi condusse un giorno al tentativo d’uccidermi.
Ricordo perfettamente: la mano, nel dirigere l’arma contro il cervello, tremava; ma non di paura, certamente. Allora non potevo temere la morte: essa era per me simbolo della disperazione, dell’oblio, del riposo – la morte era per me la fine.