di Luca Ducceschi - pagine 184 - euro 14,00 - Montag
Dopo due romanzi dalle forti contaminazioni erotiche, “Ci piacevano i Gansendrosis” (Edizioni Montag) e “Gioco di voci” (Edizioni Creativa), Luca Ducceschi dà alle stampe un libro che forse sintetizza al meglio le sue passioni narrative. Dichiarato sostenitore del mondo horror, infatti, Ducceschi raccoglie ne “In questo libro c'è il diavolo” il meglio della sua produzione fantastica. Leggere alcuni racconti, per il sottoscritto, è stato un piacere doppio, perché da collega e soprattutto da avversario di Luca in molti concorsi (specie in quelli della Ferrara Edizioni - Area 31) avevo già visionato molti dei testi, in occasione di queste gare o, nel caso di “Gioventù Kannibale”, in vista dell'uscita dell'antologia collettiva “Polpa e Colpa” curata dallo stesso Ducceschi e a cui io partecipai all'editing e in veste di autore.
Ducceschi però non si limita a raccogliere una serie di racconti già
editi, ma opera un restyling che migliora gli elaborati sia sotto il profilo
dello stile sia del ritmo.
A parte “Due inferni di ghiaccio e una stella di luce bianca” (un fantasy,
con atmosfere da Sword & Sorcery, ambientato in un mondo alieno dove gli eventi
determinano ripercussioni sulla Terra), i testi hanno in comune la particolarità
di introdurre un elemento fantastico nella società di tutti i giorni. Le
similitudini però non si limitano a questo. L'attitudine di Ducceschi per la
narrativa erotica (di quella spinta e violenta) emerge costantemente in quasi
tutti gli elaborati. Discorso analogo riguarda i contesti squallidi in cui si
svolgono i fatti e in cui vomito, cacca e piscio sono ricorrenti (in questo
forse Ducceschi dovrebbe migliorare, per rendere più variegate le
caratterizzazioni sia dei personaggi che delle scenografie). Altresì costanti
sono gli spiccati impulsi sessuali che dominano i personaggi (non si contano i
rapporti sessuali, seppur di diversa natura, dallo stupro a quello libidinoso
passando dal sesso orale a quello di ben altra natura, che Ducceschi porta in
scena). Lo stile, dalla tendenza allo sboccato e omaggiante alla narrativa pulp,
rivela uno scrittore capace di coinvolgere lo spettatore con trame quasi sempre
affascinanti e dal ritmo sostenuto, ma sempre al limite di quell'indice di
gradimento che potrebbe portare i palati più puritani a storcere la bocca.
Tra i nove racconti proposti si distinguono soprattutto “Il tatuatore”,
“Gioventù kannibale” e “Binario morto” anche se è pur vero che le
differenze qualitative tra i testi non sono nette. Personalmente ho trovato un
po' banale il solo “Bambinate” (un racconto in chiave ironica e
grandguignolesca che si concentra sulle follie di uno scrittore ossessionato da
un blocco creativo e perseguitato dal personaggio del suo racconto, appunto un
bambino che chiede vendetta).
Ne “Il tatuatore”, l'elaborato più onirico dell'intera antologia, il lettore
accompagna un'adolescente ribelle alla ricerca del suo primo tatuaggio. La
giovane percorre le vie piovose della sua città, fino a imbattersi in un circo
romeno che non aveva mai notato. Ingenuamente (questo è l'unico neo del
racconto, un neo tipico dei film slasher americani dove i personaggi fanno
quello che nessun altro farebbe), la protagonista si inoltra all'interno del
circo che appare tetro e deserto. A un certo punto l'attenzione della ragazzina
viene rapita da una roulotte su cui campeggia un'insegna che le fa capire di
aver trovato ciò che andava cercando: un tatuatore. Ovviamente la poveretta
decide di entrare... Al di là dell'ingenuità di fondo si tratta di un ottimo
racconto, capace nel 2009 di aggiudicarsi il primo (o secondo, non ricordo bene)
posto nel concorso della Ferrara Edizioni dedicato ai vampiri. Ricordo che fin
dalla prima lettura mi fece una certa impressione per l'originalità nel trattare
un tema abusato (quello dei vampiri) e per un certo gusto per l'erotismo
perverso. Ottima la descrizione del tatuaggio che la ragazza si fa fare sul
petto, così come l'atmosfera allucinata che pervade la vicenda e che induce il
lettore a non staccarsi dalla pagina. Sotto quest'ultimo profilo Ducceschi offre
il suo meglio col serratissimo “Binario morto”.
Sebbene diminuisca l'originalità del soggetto, che pare esser stato estrapolato
da un episodio della serie “Ai confini della realtà”, l'autore confeziona una
storia dal ritmo indiavolato che raramente capita di imbattersi nell'ambiente
underground. La vicenda ruota attorno a un treno fantasma su cui si trovano
inconsapevolmente passeggeri una poliziotta, un delinquente e un informatore
della polizia che si inseguono l'un l'altro per vendicarsi di torti subiti. Ciò
che i tre non sanno è che su quel treno qualcun altro è sulle loro tracce.
Questo è il racconto più appassionate e meglio caratterizzato del lotto, grazie
alla cura che Ducceschi impiega nel ricostruire un certo periodo storico,
pescando in canzoni d'epoca, vestiari retrò ed eventi verificatesi negli anni di
riferimento. Peccato, a mio avviso ovviamente, per la sfumatura pulp a tratti
gratuita (penso a esempio al disegno osceno sul vetro) che qua sarebbe stato
meglio omettere visto le atmosfere classicheggianti che Ducceschi era riuscito a
mettere in piedi.
Con “Gioventù kannibale” invece Ducceschi abbandona gli archetipi del genere e i
testi di mero intrattenimento, per intessere un qualcosa di personale. Si tratta
di un racconto violentissimo che punta i riflettori su alcuni fatti di cronaca
nera (scomparse di bambini, internet come strumento per divulgare e condividere
depravazioni, ma soprattutto i fatti del G8 di Genova e i misteri su alcuni
rapimenti) col fine di tracciare una visione coraggiosa e irriverente della
realtà. Il testo è un noir splatter in cui l'anima pulp è fin troppo evidente.
Non ci sono personaggi positivi, il sangue scorre a fiumi e i colpi nello
stomaco del lettore son ricorrenti e pesanti come macigni. Si parla di
cannibalismo, snuff movie con momenti di una violenza disturbante sia a livello
di immagini (vedere dei bambini assassini e depravati, rapiti e imbottiti di
ormoni per renderli aggressivi e voraci è una cosa a dir poco crudele) che a
livello psicologico (un ragazzo viene addirittura costretto a praticare del
sesso orale su un altro uomo; una madre colpisce con una sprangata in testa la
figlia degenera). Il finale è di un nero che più non si potrebbe, con un paese
nelle mani di un gruppo di militanti di estrema destra (si riuniscono in un
locale il cui nome omaggia il regista Sergio Martino) agli ordini di un deputato
chiamato come il regista del B-movie “Cannibal holocaust”. Dietro all'apparenza
dei fatti narrati, Ducceschi dà l'idea di nascondere dei messaggi criptici da
sciogliere per decriptare ulteriormente il testo, a partire dal significato
celato dietro ai bambini cannibali, aspetto che rende ancor più interessante il
racconto.
Tra le altre storie sono meritevoli di citazione due omaggi a Lovecraft. Il
primo, e più evidente, è “Sotto Parigi” ovvero una sorta di commistione
tra le visioni del solitario di Providence e le leggende che stanno alla base
della sceneggiatura del film “Catacombs” (citato direttamente da Ducceschi). Il
testo vanta ottime descrizioni scenografiche (nei sotterranei, tra vicoli
stretti e bui) e procede alternando pagine di diario di una persona scomparsa e
le ricerche, anche a mezzo detective privato, dei familiari. Peccato per il
finale un po' troppo sbrigativo e per dei personaggi che diventano degli
assassini sanguinari in modo incomprensibile e avventato. Qualitativamente
superiore e con ottimi spunti barkeriani (penso al racconto “Macelleria di
mezzanotte”) “Dopo l'inferno di Dante”. Protagonista è una professoressa
delle superiori vittima di bizzarre allucinazioni che sembrano connesse a una
gita scolastica fatta presso un sito religioso. La donna si ritrova a vagare,
per una Milano presidiata dai militari in tenuta antisommossa, torturata dalla
visione di mostri. Lo snodo della vicenda si ha quando la professoressa incontra
un barbone in un vagone della metro. Qui il vecchio, in una scena che richiama
alla mente “La maschera di Innsmouth” di Lovecraft, le rivela la ragione delle
visioni. Finalone a sorpresa nerissimo in stile Ambrose Bierce. Un testo dunque
che gioca molto sull'elemento delle realtà parallele e dei mostri confinati in
un'altra dimensione che irrompono d'improvviso tra noi a causa di un evento
scatenante.
I restanti due racconti sono, forse insieme a “Bambinate”, i meno brillanti.
Comune a entrambi è l'ambientazione (case di cura) e il ruolo da emarginati dei
loro protagonisti. Il primo di essi è “La vecchia della numero 16”, testo
che apre l'antologia. Ci troviamo in un ospizio in cui viene ricoverata una
misteriosa paziente di colore. L'arrivo della donna scatena una serie di decessi
apparentemente attribuibili a incidenti o a morti naturali. In realtà però sotto
a tutto c'è una vendetta orchestrata dalla nuova paziente, una donna dotata di
poteri magici con alle spalle un passato di violenze. Con le sue circa 50
pagine, si tratta dell'elaborato più lungo del lotto. Ben scritto, con un
erotismo piuttosto esplicito, il racconto procede tra flashback (messi in scena
per mezzo di alcuni racconti narrati da un vecchio paziente dell'ospizio),
scappatelle amorose tra il protagonista e un'infermiera ecuadoregna e fatti
bizzarri consumati all'interno della struttura. Forse il racconto sarebbe
risultato più esplosivo se fosse stato maggiormente concentrato, ma tant'è.
Ducceschi si limita a raccontare una storia che miscela stregoneria (anche se
non in modo approfondito e con pochi richiami esoterici) con citazioni implicite
a “L'Esorcista” (vomito verde, teste che ruotano di 360 gradi) e film sugli
zombi (la parte finale sembra un omaggio a “L'Alidilà” di Fulci, con tutti i
pazienti che vagano per le corsie della struttura con gli occhi divenuti
completamenti bianchi).
Più incalzante “C'era un occhio nel frullatore” che ribalta in chiave
diabolica la figura dell'angelo custode, da considerarsi più come un diavolo che
crea problemi piuttosto che un'entità tesa a salvare il suo protetto.
Protagonista è una portatrice di handicap ricoverata in un istituto. La donna ha
sviluppato un potere tale da consentirle di contenere le malefatte del suo
angelo custode, finché un giorno un ex suora tenta di liberarla dal peso, senza
però ponderare bene la situazione. Il demone riuscirà così a liberarsi e farà
mattanza all'interno del ricovero fino all'intervento di un cane posseduto da
un'entità benigna che aggredirà lo spirito malvagio con grande dispiego di
sangue vecchio di oltre 50 anni. Di rilievo l'epilogo in cui si assiste - non so
quanto volontariamente - a una riproposizione del capolavoro di Bierce “La cosa
maledetta” con il cane alle prese con un nemico invisibile. A fungere da
contorno libri sul nazismo magico e personaggi storici che paiono rivivere sotto
forma di entità ectoplasmatiche.
In definitiva un'antologia interessante densa di storie pessimiste e diaboliche
(da qui il titolo “In questo libro c'è il diavolo”) che si legge senza fatica.
Ottima la confezione e la rilegatura, pochi i refusi. Da leggere anche sotto
l'ombrellone.
Voto: 7
[Matteo Mancini]
Incipit dal racconto "La vecchia della numero sedici"
«La tragedia di questa notte è senza dubbio destinata a segnare come una ferita
la memoria futura della cittadina di Berchiavilla, tranquilla località di
cinquemila abitanti a ridosso delle montagne.
La casa di riposo sorgeva in periferia e ospitava una settantina di anziani.
L'esplosione è stata sentita a chilometri di distanza. Uno scoppio di potenza
inaudita, che ha completamente raso al suolo i due piani dell'edificio.