di Lucio Fulci - pagine 146 - Granata Press
Chi non conosce Lucio Fulci come regista di film di genere?
Giusto coloro che non si interessano minimamente ai c.d. B-Movie, gli
altri non sarebbero giustificati. Ma quanti tra coloro che apprezzano i
B-Movie hanno letto i racconti di Fulci? Credo in pochi. Ebbene eccomi
qui per cercare di invogliarvi a colmare questa vostra lacuna.
“Le Lune Nere” è la prima delle due antologie pubblicate dal
“terrorista dei generi”. Edita nel 1992 dalla ormai fallita Granata
Press di Bologna, l’opera di Fulci è pervasa da una grossa componente
ironica che sconfina spesso nel grottesco volontario.
I racconti raccolti sono dieci e sono tra loro assai diversi, sia come
temi che come stile.
Alcuni sono scritti da vero autore di narrativa,
altri, invece, sembrano provenire dalla mano di un principiante.
Probabilmente il tutto risente dal fatto che i testi sono stati redatti
in un diverso periodo di tempo.
Dopo questa brevissima premessa, passo subito ad analizzare nello
specifico i racconti meritevoli di attenzione. Tra tutti almeno cinque
sono di ottima fattura.
Il migliore del lotto, ad avviso di questo recensore, è “Contestazione”.
Si tratta di un elaborato che richiede una certa apertura mentale del
lettore, perché Fulci mette in scena un feto pensante che riesce a
comprendere le voci del mondo esterno alla sua placenta e a
indispettirsi per essere trattato senza che nessuno prenda in
considerazione i suoi pensieri. Superata questa base di partenza, che
potrebbe far storcere il naso a coloro che sono strettamente ancorati
alla realtà, il testo assume una valenza altamente metaforica e
dissacrante. Fulci critica con intelligenza quel materialismo di certe
persone (i genitori del bimbo parlano continuamente di soldi e di
bellezza fisica) che spazza via ogni forma poetica che dovrebbe
impreziosire la vita e trasforma in mostri le persone. Da quest’ultimo
punto di vista, è magistrale l’epilogo del racconto con il bimbo che
mentre prende la prima poppata dal seno della madre… beh, conoscete
Fulci, credo che non occorra che vada avanti.
Assai claustrofobico è “Porte del nulla” (dal racconto sarà
tratto l’omonimo film), con un automobilista ossessionato da un carro
funebre che gli ostruisce continuamente il suo passaggio. Se fosse un
film si potrebbe definire un c.d. road movie, con una tensione sempre
più crescente, perché il protagonista scopre, via via, particolari che
lo legano sempre più alla bara presente nel veicolo. Insomma, un testo
che rievoca atmosfere di bradburiana memoria (penso al racconto “La
folla”).
Assolutamente provocatorio, fin dal titolo, è “In assenza di Dio”.
Qui un immigrato slavo, sfuggito alla polizia doganale, viene raccolto
da una giovane e portato in una struttura dove viene servito e riverito.
Il ragazzo non sa però che è stato arruolato per ricoprire il ruolo di
Gesù in una sorta di rappresentazione della Passione di Cristo. La
particolarità della recita, però, è che la medesima viene eseguita senza
trucchi scenici… Da segnalare l’inserimento di qualche elemento eretico
(rapporto sessuale tra Maddalena e Gesù).
Forse un po’ inferiori, ma comunque buoni sono “Voci dal profondo”
e “Buoni sentimenti”.
Il primo (anch’esso trasposto su pellicola) è una storia un po’
malinconica, con Fulci che utilizza un paio di frasi d’effetto (“i morti
possono camminare con noi solo attraverso il ricordo e l’amore”) degne
della mano di un grande scrittore. L’opera è incentrata sul rapporto tra
i morti e le persone care rimaste in vita. Più in particolare, siamo
alle prese con un omicidio perpetrato per ragioni economiche e svelato
solo grazie alla caparbietà della figlia del defunto, guidata dai sogni
in cui il padre parla del destino dei morti.
Col secondo racconto, invece, si ritorna a quell’ironia tanto cara a
Fulci, con un testo che è una chiara protesta contro l’atteggiamento di
una certa critica che demonizza i film horror, ma lascia che i bambini
vengano “rincitrulliti” da certi cartoni animati (al giorno d’oggi
questo aspetto sarebbe ancora più amplificato, a mio parere). La bambina
protagonista della storia, infatti, finisce preda di incubi originati
dai cartoni e da antiche fiabe, fino a un epilogo drammatico.
Se questi cinque racconti fanno dell’antologia un ottimo prodotto, gli
altri cinque non sono all’altezza della situazione.
Qualcuno ha degli aspetti positivi ma è scritto in modo non ottimale,
come il visionario “I Testimoni” (cliente di un albergo vede
riflessi sugli specchi fatti successi nel passato); qualcun altro ha una
geniale idea di partenza ma si perde con una narrativa poco
coinvolgente, come l’ironico “Uomo di guerra” (stratega militare
in pensione simula le guerre nel suo salotto); “Trio” (donna ama
personaggio della tv senza neppure conoscerlo) è carino ma non brilla
per originalità e si chiude in modo prevedibile; gli altri due, entrambi
incentrati su rapporti di famiglia (“Gourmet” e “Attesa”),
sono, a mio avviso, grezzi e non sviluppati a dovere.
Nel complesso un’antologia con buoni momenti e qualche racconto che si
sarebbe potuto sostituire con qualcosa di più incisivo. Non siamo al
livello del Fulci super onirico dei film (né tanto meno furioso fino
agli eccessi), ma è comunque un’antologia che, nel complesso, raggiunge
la sufficienza e presenta una cinquina di racconti tra il buono e il
discreto. Consigliabile.
Voto: 6,5
[Matteo Mancini]
Incipit (dal racconto “I testimoni”)
L’albergo aveva da fuori un’aria molto carina, pensava Carla: un
liberty ben rifatto, dirimpetto al lungo lago.
L’appuntamento in albergo era una fissazione di Guido, una specie di
vizio; lui diceva che gli dava sensazione di clandestinità, di incontri
fugaci, di lussuria. E ci rideva sopra.