di Riccardo Coltri - pagine 345 - 15,50 euro - Asengard
In un’Italia ottocentesca, dove leggende, miti e magie convivono tra i
boschi innevati, Zeferina, figlia di una strega, fugge disperata
proteggendo suo figlio, un neonato guercio che tutti - orchi, nani,
elfi, draghi, minotauri e mostri di ogni tipo - vogliono catturare. A
darle la caccia, tra tutti, spunta la figura di Nero, un uomo diviso tra
la natura di marito e padre, e una più misteriosa, ancestrale, che lo
lega alla gente dei boschi, e dalla quale non riesce a distaccarsi
completamente.
Pochi giri di parole, ché non servono.
"Zeferina" è l’esempio, limpido, chiarissimo, inaspettato, di
quanto possa essere originale e innovativa, pur restando fedele a certi
dogmi, la letteratura fantasy. E sebbene questi termini, se usati nella
stessa frase, possano risultare improbabili, assurdi, addirittura
ridicoli, il lavoro svolto da Riccardo Coltri è talmente fresco,
singolare e accattivante, che dovrebbe diventare pilastro fondamentale,
sostegno necessario, negli anni a venire, di un certo modo di intendere
il genere più inflazionato di tutti i tempi.
Parole grosse, forse, enormi, esagerate, ma lo scenario creato per "Zeferina"
è quanto di più affascinante e visivo abbia letto da non so quanto tempo
a questa parte, tanto da permettermi di passare oltre alle varie magagne
che purtroppo azzoppano il romanzo.
Ciò che colpisce, che ammalia, che cattura e, a tratti, lascia
addirittura a bocca aperta, è un background in cui la realtà del Regno
d’Italia da poco unificato si fonde e sfuma con le mitologie care della
tradizione fantasy (orchi, elfi, nani e compagnia favoleggiante) e
soprattutto con le leggende sepolte nel passato, superstizioso, oscuro,
pauroso, dei nostri avi (babau, streghe e molte altre credenze popolari,
da nord a sud).
Partendo da questo concetto, in "Zeferina" lo sfondo è sempre
potenzialmente credibile, in quanto le varie figure fantasy non appaiono
nelle loro vesti classiche, ma sono bensì uomini normali resi, di volta
in volta, orchi, elfi o nani in base alle dicerie della gente, o alle
tribù boschive a cui appartengono, o per mezzo di certe caratteristiche
fisiche - malformazioni, deturpazioni.
Gli orchi sono guerrieri, uomini spesso rozzi che combattono e uccidono;
gli elfi sono persone misteriose, schive, sagge quanto crudeli; i nani
sono uomini di bassa statura, istintivi, irascibili, sempre armati; e
via di questo passo.
È questo aspetto che dà a "Zeferina" un’impronta a suo modo geniale,
attraente perché insolita, irresistibile perché realistica (per fare un
esempio, le credenze religiose degli orchi mischiano paganesimo,
mitologia nordica e cattolicesimo), grazie anche allo stile di Coltri,
secco ma evocativo e visionario.
Ciò non toglie l’aspetto prettamente fantastico del romanzo, e anche
sotto questo punto di vista la creatività di Coltri è talmente vasta,
fantasiosa, che più di una volta si rimane estasiati dalla sequenza,
lunghissima, infinita, di creature che vivono al di là del Cancello
(luogo proibito, che le genti non devono oltrepassare).
La scelta, vincente, è quella di offrire una carrellata veloce, ma
affascinante, tremendamente affascinante, di tutto il bestiario che
dimora oltre i confini del mondo reale, senza troppo soffermarsi su
questo o quell’altro mostro. Si rimane pertanto tramortiti, senza
respiro, agghiacciati dall’orrore che vive al di là del Cancello,
costituito da esseri ripugnanti, spietati, inconcepibili, che non ci è
dato conoscere né comprendere, ma solo vedere di sfuggita, assaggiare a
piccoli spicchi.
Di fronte a tanta meraviglia, è quindi un vero dispiacere constatare che
una maggiore attenzione e pulizia avrebbero reso "Zeferina" un lavoro
splendido, impagabile. Il prodotto targato Asengard Edizioni è
visivamente esemplare (artwork, impaginazione, cura generale), e il
prezzo, tutto sommato, è buono, accettabile per una piccola casa
editrice che pubblica un autore mediamente noto nell’underground
letterario italiano.
Tuttavia, "Zeferina" rimane deturpato da una certa leggerezza di editing,
fattore necessario per asciugare i dialoghi chilometrici, vero tallone
d’Achille del romanzo. Gli scambi di battute dei vari personaggi sono
infatti lenti, infiniti e soprattutto irritanti perché continuamente
spezzati da tonnellate di ‘mh?’, ‘cosa?’, ‘che?’, ‘come?’, ‘ma’, ‘senti’,
‘eh?’ ripetuti fino allo sfinimento. Lo scopo, intrigante, è quello di
dare un aspetto cinematografico al tutto, e quindi enfatizzare un certo
realismo che dalla carta potrebbe non trasparire (esitazioni,
incertezze, ripensamenti), ma il risultato finale è spesso infelice,
addirittura fastidioso in certi frangenti (basta citare il primo
capitolo, con il dialogo sfiancante tra Nero e la sua donna).
Altre imperfezioni si possono scovare in certi eventi non troppi chiari
e motivati ("Zeferina" continua a scappare a destra e sinistra senza
giustificazioni appropriate, e si ha a volte l’impressione che la
maggior parte delle sue azioni sia dettata da coincidenze forzate), o
nell’utilizzo di una manciata di spiegoni, che appaiono quasi a forza
nei momenti clou, per far capire al lettore i retroscena più importanti
della vicenda.
Difetti, certo. Enormi, a volte, grossolani in altre. Imperfezioni che
non dovevano esistere, visto il potenziale stratosferico del romanzo
(come ben sottolinea Gianfranco Nerozzi nella prefazione). Ma si
superano, e volentieri, grazie alla solida, invincibile impalcatura di
"Zefirina", opera ahimè non perfetta, ma imprescindibile non solo per la
narrativa di genere italiana, ma per l’intero mondo fantasy.
Voto: 7,5
[Simone Corà]
Incipit
File di denti erano tatuate e intagliate sulla pelle di entrambe le
guance con minuziose scarnificazioni, diventando semplici disegni quando
si congiungevano sulle labbra colorate di bianco; nere le palpebre, il
dorso del naso e le narici per far credere, nel buio, si trattasse di
cavità.
Di loro si diceva che parlassero ai gufi, gli uccelli diventati notturni
dopo la Crocifissione, e quando tornavano, battendo fra loro sassi per
creare echi, moniti a non guardare, erano ombre davanti alle finestre,
maschere di teschi che si avvicinavano ai vetri. Per omaggiarli si
inchiodava carne sulle porte delle stalle, si lasciavano vino e pezzi di
pane, biscotti.
Chi davvero riusciva ad avvicinarli sapeva che erano capaci di grandi
doni se prima riveriti.