Il bambino che parlava con il Diavolo

di Justin Evans - pagine 379 - euro 9,90 - Newton Compton

Il neo papà George Davis ha un problema: per quanto senta di amare suo figlio, non riesce ad avvicinarsi a lui e men che meno a toccarlo. Nella speranza di tenere in piedi il suo traballante matrimonio e di riscattarsi come padre e come marito, George va in analisi. Nel corso delle sedute pian piano cominciano a riaffiorare i ricordi perduti dell'infanzia. Quando George aveva solo undici anni, sconvolto dalla morte prematura del padre, aveva iniziato ad avere delle terribili visioni. Incapace di controllarsi, George si abbandonava a comportamenti aggressivi e violenti.

Ma quelle visioni erano solo il prodotto di un'immaginazione troppo vivace? Erano forse sintomi di follia? Oppure il piccolo George era posseduto dal demonio? Rimasto imprigionato nei ricordi del protagonista per tanti anni, ora il mostro di George si è svegliato. Ed è pronto a uccidere ancora (dalla seconda di copertina).
Questo romanzo di esordio dell'americano Justin Evans racconta la vicenda di George Davis e della presunta possessione demoniaca che fin dall'infanzia lo perseguita. Nonostante le altisonanti citazioni promozionali in ultima di copertina (La suspence nelle storie di Evans è agghiacciante... ecc) "Il bambino che parlava con il diavolo" è tutto tranne che un capolavoro; si legge sì volentieri visto che offre qualche spunto interessante, ad esempio la narrazione in prima persona del posseduto è molto originale, ma altri elementi degni di nota non ci sono. Forse mi aspettavo troppo dal miglior libro del 2007 secondo il Washington Post?
Altra nota dolente riguarda l'irritante editing di questo libro che presenta un sacco di refusi... una caratteristica che è ormai diventata un marchio di fabbrica della Newton.
Voto: 6

Incipit
Era una bella casa di arenaria sulla Ninth Street, non lontano da dove abitavo io. Probabilmente ci ero passato davanti molte volte senza notarla. Una scala di pietra e una luce calda all'interno. Sul marciapiede una donna portava a spasso il cane, un Boston Terrier nero con gli occhi sporgenti. Mi sorrise. Mi chiesi se non avesse capito in qualche modo che ero un'anima in pena.
Il mio recente problema mi aveva fatto tornare in mente un allenatore che avevo al college, un israeliano che scherzava sempre sull'ingenuità degli americani e amava dire: "Secondo Freud, siamo tutti poeti in sogno". Per lui, l'analisi e l'interpretazione dei sogni erano solo un modo per convertire le nostre piccole miserie personali in giganteschi e robusti miti. Mi creda, non avevo intenzione di fare niente di simile, quando entrai nel suo studio. Il mio problema, sebbene non comune, sembrava una specie di blocco più che una vera e propria crisi;  non avevo davvero intenzione di trasformare la mia vita in un dramma, diventare l'eroe che fa la domanda giusta, risolve l'enigma e ammazza il drago, in una sorta di poema epico ambientato nelle strade di Manhattan.