Il demone di Dio

di Wayne Barlowe - pagine 399 - euro 9,90 - Newton Compton

Dopo la caduta di Lucifero dal Paradiso, i demoni vivono nell’oscuro regno dell’inferno. Nel buio eterno, tra paesaggi di spoglia roccia e fiamme inestinguibili, dove riecheggiano le strazianti urla di dolore delle anime dei dannati, due città si stagliano imponenti sopra tutte le altre: Dis, governata da Belzebù (erede di Lucifero) e Adamantinarx, governata da Sargatanas. All’improvviso un tuono scuote l’intero regno, quando Sargatanas dà inizio alla sua folle rivolta, marciando contro la città che un tempo gli fu amica. Spinto dalla nostalgia dei luoghi abitati prima della caduta e dall’amore per Lilith, ambigua e sfuggente creatura infernale, il demone vuole mettere fine all’oppressione di Belzebù e vincere un impossibile scontro tra titani.

Per dipingere l’Inferno senza ricadere in sterili cliché accumulati in secoli di libri, film e tutto quello che ci passa per il mezzo, serve un minimo di stupore visivo e di apertura creativa. Troppo facile tratteggiarlo attingendo il pennello dalla tavolozza della realtà e lasciare in disparte le tempere di trascendenza, fondamentali per accattivare il quadro.
Se c’è una cosa che Wayne Barlowe sfrutta con intelligenza e maestria è la sua strabordante arte visiva, attraverso la quale crea un Inferno fantasioso e colmo di stranezze di ogni tipo. Dalle metamorfiche caratterizzazioni fisiche dei protagonisti, passando per il singolare uso punitivo delle anime, e ancora descrivendo le bizzarre creature che popolano il luogo fin da prima della Caduta, è difficile non rimanere affascinati da un’immaginazione così brillante e priva di confini.
Ma ogni buona parola che si possa spendere per "Il Demone di Dio" si esaurisce nelle righe precedenti. Barlowe sceglie infatti la strada di una narrazione enfatica e pomposa, ricca di descrizioni che, tolta la meraviglia con cui le si accoglie, diventano macigni indigeribili. Il solo prologo, in appena tre cartelle e mezzo, è una delle letture più stancanti che mi sia capitato di affrontare in questi ultimi tempi.
E allora si tiene duro, sperando che la vicenda sprigioni qualche sussulto tra uno sbadiglio e l’altro, che si presenti qualche scossone che tolga questa spessa crosta di noia, ma invece niente. Lo scenario dettagliato che nasce dalla penna di Barlowe avanza lento e pachidermico, e la lotta contro la palpebra calante è ardua.
Si mantiene viva l’attenzione giusto per la curiosità che nelle prime pagine ha catturato l’occhio, ma non c’è modo di provare piacere in un mammut di 400 cartelle che anchilosa mente e occhi.
Ad accentuare la pesantezza narrativa bisogna aggiungere poi una traduzione approssimativa e tutt’altro che scorrevole, nella quale convivono ripetizioni a manetta e interpretazioni letterali che tolgono fluidità alle frasi. Ma questo è un classico della Newton e, probabilmente, per il prezzo a cui vengono venduti i loro romanzi è superfluo anche lamentarsi.
Voto: 5
[Simone Corà]

Incipit
La cenere cadeva da un cielo tetro e cupo, attenuando il caos vorticoso del mondo sotto la finestra aperta di Eligor, oscurandogli la visione al punto che riusciva a malapena a distinguere le torri lontane e scalcinate che sapeva essere lì. Solo la luce di Algol, stella sempre viva e presente, riusciva a penetrare le nubi oscure e a tingere la stanza di un tiepido bagliore. Eligor era seduto, immobile, com’era capace di starsene per ore, osservando i fiocchi che cadevano lentamente e pensò che fosse giusto che fossero così densi e pesanti.