Fahrenheit 451

di Ray Bradbury - pagine 196 - euro 7,40 - Mondadori

È difficile parlare di un libro come “Fahrenheit 451” senza ripetere cose già dette in centinaia e centinaia di parole, già spese per descrivere ed elogiare quest’opera conosciutissima. Il lavoro che, assieme alle “Cronache Marziane”, ha fatto splendere il nome di Ray Bradbury, è così quotato (grazie anche all’omonimo film di François Truffaut) da appartenere di diritto a quei libri che “devono essere letti”, soprattutto per i contenuti e per i suoi significati.

Ecco perché è forse opportuno descrivere il libro, non tanto per i lettori che già lo conoscono, quanto per quelli che, indecisi tra la moltitudine dei libri che “devono essere letti”, non sanno ancora molto del libro e della sua trasposizione cinematografica.
Si può subito anticipare che, a più di cinquant’anni dalla sua uscita, questo è un ottimo libro, ma non, per stile e linguaggio, quel libro straordinario che il prestigio legato al nome lascia a tratti intendere. Attenzione, questa non vuole essere una critica, ma un invito alla contestualizzazione dell’opera e al alla sua interpretazione. Fahrenheit 451 è stato pubblicato per la prima volta nel 1951 e così come per i lavori di Orwell, è spinto dalle paure che potevano attraversare l’occidente vincitore in quegli anni, osservando cosa accadeva aldilà della cortina di ferro. Orwell, peraltro, non è una citazione casuale, perché molte delle tematiche Bradburiane sono ricomprese in quell orwelliane. Siamo, infatti, nell’ambito della fantascienza al servizio della politica e delle cose da dire in generale. L’autore crea un mondo futuro per poter dire qualcosa a quello attuale, e la sua è una fantascienza lieve, che introduce nella società pochissimi cambiamenti e innovazioni tecnologiche (su due piedi, si potrebbero riassumere in un “segugio meccanico” e nelle “case che non bruciano”). Il resto delle azioni pare avvenire nel presente piuttosto che nel futuro. Non che ciò sia un evento negativo, semplicemente è una scelta, e a tratti si rischia di avere l’impressione che “Fahrenheit 451” non sfrutti appieno il potenziale dell’idea che racchiude, rimanendo incerto su alcuni fatti che potrebbero apparire piccole incoerenze. Mi riferisco, ad esempio, una società che prima sembra reprimere i “lettori” o chi non vive secondo gli schemi, ma poi questi paiono essere così tanti da essere quasi “tollerati”. Oppure, altra incoerenza, case che prima sono a prova di fuoco e paiono sciogliersi allegramente e completamente. Sono indubbiamente dettagli, che non inficiano in alcun modo l’impatto generale dei concetti trattati, ma che spingono il lettore all’esterno del libro, ricordandogli che siamo comunque nell’ambito della finzione.
Ad ogni modo le idee su cui poggia il libro, ovvero quella dei pompieri che appiccano incendi ovunque vi si conservi dei libri, l’idea dell’oblio e della spersonalizzazione portati da una società che non codifica più un certo tipo di sapere (umanistico, per lo più), sono due “insides” formidabili. A tutti quelli che hanno sofferto le atmosfere di 1984, più di ogni altro horror-thriller, questo libro darà di nuovo gli stessi brividi.
Guy Montag, il protagonista, nella sua ricerca della propria persona e del suo pensare, diventa icona di un viaggio, interiore ed fisico, verso quello che anima ogni arte: la libertà.
Ci sono personaggi, oltre al protagonista, che devono essere osservati e apprezzati per ciò che rappresentano. L’”invasata” moglie di Montag e la “pensante” Clarisse, sono gli antipodi di un mondo in cui Guy vive e combatte, per scegliere da quale parte stare. E l’autore, americanamente parlando, ce lo dice a ogni riga e a ogni parola quale sia la parte giusta. Beatty, il capo pompiere, è alla fine il personaggio più inquietante e selvaggio, asservito al potere del sistema e suo strumento, eppure conoscitore di libri e, alla fine, vittima stessa della spaccatura che i pompieri, con i loro lanciafiamme, continuano a tenere ben aperta, fra gli uomini e la loro coscienza.
Insomma, ce n’è abbastanza per capire perché questo sia un “libro che deve essere letto”, senz’ombra di dubbio, aldilà delle trasposizioni filmiche e della scrittura di Bradbury che, a mio avviso, è leggermente appesantita da troppi aggettivi e ridondante, soprattutto nella prima parte del libro. Anche il finale, forse eccessivo e non eccessivamente significativo, ha il merito di dare un colore diverso a tutto il lavoro, sfumandolo verso tinte meno fosche, venate di qualche bagliore di speranza.
Per tutti quei lettori, quindi, che si chiedono se tra i best-seller che, a detta di tutti, “bisogna leggere”, ci sia veramente anche questo, la risposta è immediata: sì, bisogna leggerlo.
Voto: 7,5
[Gelostellato]

Incipit
Era una gioia appiccare il fuoco.
Era una gioia speciale vedere le cose divorate, vederle annerite, diverse. Con la punta di rame del tubo fra le mani, con quel grosso pitone che sputava il suo cherosene venefico sul mondo, il sangue gli martellava contro le tempie, e le sue mani diventavano le mani di non si sa quale direttore d'orchestra che suonasse tutte le sinfonie fiammeggianti, incendiarie, per far cadere tutti i cenci e le rovine carbonizzate della storia. Col suo elmetto simbolicamente numerato 451 sulla stolida testa, con gli occhi tutta una fiamma arancione al pensiero di quanto sarebbe accaduto la prossima volta, l'uomo premette il bottone dell'accensione, e la casa sussultò in una fiammata divorante che prese ad arroventare il ciclo vespertino, poi a ingiallirlo e infine ad annerirlo. Egli camminava dentro una folata di lucciole. Voleva soprattutto, come nell'antico scherzo, spingere un'altea su un bastone dentro la fornace, mentre i libri, sbatacchiando le ali di piccione, morivano sulla veranda e nel giardinetto della casa, salivano in vortici sfavillanti e svolazzavano via portati da un vento fatto nero dall'incendio.
Montag ebbe il sorriso crudele di tutti gli uomini bruciacchiati e respinti dalla fiamma.