Non mi uccidere

di Chiara Palazzolo - pagine 427 - euro 4,90 - Piemme

Mister Pro e mister Contro non c’è una volta che siano d’accordo. Spesso leggono lo stesso libro e poi discutono. A volte, anche s’azzuffano. Hanno letto da poco il primo capitolo della trilogia horror di Chiara Palazzolo, vuoi perché costava poco, vuoi perché ne parlavano in molti, vuoi perché ormai la trilogia è finita e bisognava pur saperne un po’ di più, di questa giovanotta di belle speranze. Li ho ascoltati per caso, dire queste cose:
Pro: Comunque questo libro è un horror. Ma un horror vero, non uno di quelli travestiti da thriller, da fiaba nera, da leggenda antica, da dramma storico. Un horror con tanto di nuovi personaggi, i Sopramorti, e di nuovi cacciatori dei mostri, i Benandanti.

Contro: Eh, già, nuovo personaggio, certo. Ma se è un mix fra vampiri e zombi? O fra bestie e mutanti se vuoi. Un mix, mica niente di nuovo. Un bel frullato di horror-i classici e nulla più.
Pro: Come se fosse facile inventare qualcosa. Accontentati no? Per me è una rivisitazione. E poi qui siamo in Italia. Qui c’è Perugia, c’è Roma, c’è l’Appennino. E ci sono i giovani. Quelli scoppiati e quelli normali, quelli drogati e quelli sfigati. C’è la tecno, ci sono i locali, l’università, i genitori. C’è l’Italia media, insomma, quella di tutti. È Horror italiano, al 100%! Almeno quello non lo puoi negare.
Contro: E certo che non lo nego! Ma tu non puoi negare che purtroppo c’è l’amore. Stucchevole e giovanile, fatto apposta per gli adolescenti. Questo è una specie di Moccia versione horror, devi ammetterlo. Scritto facile per menti facili. Una specie di ruffianata, curata a tavolino, con il germe del marketing fin dalle prime pagine. Qui si è mirato bene, prima di sparare!
Pro: E allora? Scrivere è (soprattutto) intrattenere. Raccontare storie. E questa è una storia, punto! E partirà anche da un amore adolescenziale, ma quanto altro c’è dentro? C’è rabbia, c’è un horror che non tracima mai nello splatter, ci sono idee, ci sono personaggi, ci sono storie intrecciate, c’è un pizzico di poesia. Ci sono anche atmosfere gotiche e almeno per metà libro c’è anche il ritmo. E poi qui siamo dal punto di vista dei cattivi. E si tifa per i cattivi. Si diventa più cattivi, ed energici leggendo. Poco originale, forse, vedere le cose dall’altra parte della barricata, l’avranno già fatto a migliaia, ma è abbastanza per dire che non è solo un romanzo per ragazzi. Questo è un romanzo horror, che forse, è anche per ragazzi.
Contro: Sì vabè... e la pacchianata della trilogia? che fa tanto Eragon, che fa tanto “una ciliegia tira l’altra”, con la copertina ruffiana, con la lecchinata della storia d’amore che pare imprigionare il lettore e selezionarlo prima dell’acquisto, come a voler scansare quelli che potrebbero criticare? Un cuore nero travestito da “harmony” o un harmony vestito di scuro?
Pro: Direi che è una ruffianata se il libro fosse uno di quei casi uno+uno+uno; ma qui siamo di fronte a un disegno complessivo preordinato, con una sinossi già decisa in partenza. Basta vedere questo primo episodio, che non ha un finale. Semplicemente si interrompe. Ed è la stessa Palazzolo (vedi intervista sul Mucchio Selvaggio di questo mese) a confermarlo. Inoltre non pare affatto una sprovveduta, ma una che ha faticato e ce l’ha fatta faticando. Che quel che ha fatto l’ha pensato a lungo e l’ha costruito. E che nulla è per caso. E che certo, se ha deciso di sfruttare la corrente ascensionale del thriller mescolata all’horror e all’idea di romanzo (quasi) di formazione, l’ha voluto. Mica puoi fare una colpa se uno indovina la formula giusta? Non c’è nulla da rimproverarle. Anzi. C’è da ringraziarla per tutte le porte che questa trilogia sta aprendo all’horror italiano, quello vero. Non quello dei raccontini raccomandati dei soliti noti. Non sarà ancora horror “vero”, ma chi ti dice che voleva esserlo? E poi c’è qualche idea che non è nemmeno banale: la fame che si manifesta con il fetore ti sembra poco? La sete continua, la figura di Paco... tutte cose ben riuscite.
Contro: Ok. Ma veniamo al libro. E lo stile? No, voglio dire. Che stile è?! Frasi e frasette continue e ripetute. Paratassi su paratassi. Verbi in vacanza. Frasi spezzate come Andrea De Carlo usava 10anni fa. Un fastidio per il lettore. Ti fa venire il voltastomaco come sugli autoscontri. Illeggibile ti dico! Un effetto voluto? Beh, ne faccio a meno! Sono la ricerca di uno stile o di una sperimentazione? Ma... mi viene il dubbio. E poi... 430 pagine! Andiamo... troppe!
Pro: Obiezione ridicola. Lo stile è uno stile. Facile accorgersene. Bastano le prime righe. Le frasi brevi non sono a casaccio, e via via che Mirta comincia a riprendere coscienza si allungano. Così come, man mano che Mirta cede il posto a Luna, anche il lessico cambia, sia di tenore che di registro. E tutto questo non è casuale. E se forse un 30-50 pagine in meno, soprattutto in alcuni tratti, potevano giovare, c’è da sottolineare l’abilità nel reggere un romanzo di oltre 400 pagine in prima persona, con uno stile particolare, eliminando i dialoghi e riuscendo ugualmente a dare vivacità a quasi tutte le scene. Di errori poi, non se ne vedono e le incongruenze sono ridotte al minimo. Se ci aggiungiamo che l’autrice, in tutte queste pagine è riuscita a ridurre a una (!) volta sola l’espressione “Mirta la morta”, beh... tanto di cappello.
Contro: Beh, insomma. Al minimo non direi. Questa si fa fuori mezza Umbria e nessuno la becca. La gente esce di casa come al solito, la polizia, sparuta, gironzola qua e là con indagini di routine. Andiamo su! La credibilità è andata a puttane, questa è la verità!
Pro: È un horror, mica un noir! C’è verosimilità nelle cose che servono, in quello che può o non può fare un sopramorto, nel modo in cui, da autodidatta, la protagonista lo scopre. C’è verosimilità nei personaggi e nei dialoghi. Ed essendo una prima persona, quel che vede la protagonista è giustamente ed evidentemente lontano dalla realtà. Non sarebbe stato corretto, il contrario. Insomma, se non puoi raccontare una storia con un libro horror con che cosa lo dovresti fare?!
E concludo, visto che le critiche sono deboli e capziose, che è tutta questione di aspettative. Se si vuole valutare il romanzo come l’erede di Poe, allora no, non ci siamo. Ma se cerchiamo un romanzo horror, ambientato in Italia, con personaggi italiani, con uno stile originale, anche se discutibile, con una storia d’amore che si trasforma presto in lotta per la sopravvivenza, in ricerca dell’identità, nel rapportarsi agli altri, e che nel fare questo parla di diversità, di rabbia giovanile, di pochezza umana, di storie di tutti i giorni, senza perdere mai di vista l’obiettivo principale, ovvero intrattenere, beh, allora ci siamo, questo romanzo ha centrato l’obbiettivo.
Inoltre, nonostante la visione a tratti ingenua delle cose, nonostante qualche ruffianata di troppo, nonostante il bel vestito tessutogli dall’editoria e dal marketing, è un romanzo che dopo l’ultima pagina riesce a regalare quell’ebbrezza adolescenziale, quella voglia di essere un super eroe o, in questo caso, un sopramorto. Insomma, “Non mi uccidere”, come direbbe Paco, l’ha sfangata, e l’ha sfangata alla grande.
Contro: Io rimango della mia idea: non lo sopporto!
Pro: E io rimango della mia: lo adoro, e leggerò anche gli altri due!
Per quanto mi riguarda, appartengo alla seconda categoria, ma saggiamente non disprezzo gli appartenenti alla prima. Quel che è indubbio è che “Non mi uccidere” è un progetto interessante e curato. Che può piacere o meno, ma che non si può assolutamente gettare nel calderone della scrittura improvvisata e di basso livello.
Voto di un pro: 7,5
Voto di un contro: 4,5
[Gelostellato]

Incipit
Un vento gelido spazzava i viali, torcendo le chiome leggere dei platani. Sotto il ciclo gravido di nubi di pioggia, una ventina di persone si assiepavano intorno alle bare. Le lapidi erano già state incise. Le fosse scavate al mattino. Il sacerdote fece un segno di croce su ciascuna bara. Mormorò alla svelta una preghiera, nel silenzio generale. Non era più tempo di prediche. E nell'omelia della sera precedente, ai funerali, aveva già detto tutto quel che c'era da dire.
«Mirta e Roberto» concluse. «Riposate in pace.» Immobile come una statua, Amalia fissava la bara di sua figlia. Non riusciva a piangere. Non sapeva neanche come facesse a reggersi in piedi. Non mangiava e non dormiva da quattro giorni. Non pensava neppure da quattro giorni. E quasi non parlava, se non per pronunciare i pochi monosillabi di circostanza: sì, no, grazie. Accanto a lei, Piero piangeva. Suo marito riusciva a piangere. Un uomo alto dai capelli grigio ferro, chiuso in un cappotto blu scuro, che piangeva come un bambino. Da giorni. Amalia provava invidia e rabbia nei suoi confronti. Perché lei lo aveva capito subito che le cose non sarebbero potute andare diversamente.