Epifanie

di Ian Delacroix - pagine 71 - euro 6,60 - Lulu

Per addentrarsi nel teatro del burattinaio Ian Delacroix bisogna essere determinati, perché i mondi che si aprono attraverso le sue parole sono lontani e polverosi, remote antichità che scavano nel passato e si tingono di oscura poesia. La prosa di cui si fa cantore, profumante odori ottocenteschi, non è infatti adatta a tutti i palati. È necessario munirsi di una meticolosa attenzione per saperla apprezzare sino in fondo, in ogni sua sfumatura e finezza narrativa.

Epifanie è un tortuoso viaggio nei meandri della Praga magica, una Praga dove convivono pittori demoniaci, meretrici dell’oltretomba, marionette senza fili, e quant’altro possa arricchire l’inusuale universo fiabesco tratteggiato dalla penna (niente Word, qui, si rovinerebbe l’atmosfera) di Ian.
Cinque racconti, ma in realtà solo uno. Cinque storie differenti che si intersecano l’una con l’altra, che avvolgono il lettore in uno scenario ormai dimenticato, e che lo costringono ad assaporare con curiosità crescente ciò che lega le varie vicende e i personaggi che prendono vita in esse. Un uomo non più in grado di distinguere la realtà dal sogno; un giovane troppo curioso, afflitto dall’ansia di toccare un prestigioso oggetto arcaico; un dipinto tanto importante quanto pericoloso; una donna alle prese con un lungo grido d’amore e di sofferenza verso l’uomo che non le è più accanto. Questi i temi toccati, dai quali tralascio volutamente il nocciolo centrale, che racchiude con intelligenza quanto accade nella Praga favolistica.
Le parole di Ian sono un flusso continuo di metafore idilliache, complesse e ricercate, capaci di creare immagini di strepitosa intensità. Il rischio, in questo caso, è quello di dare vita a una lettura lenta e noiosa (punti bui in cui, purtroppo, s’inceppa saltuariamente l’opera), ma il pericolo è tutto sommato raggirato da una superba prosa simbolica, che sa stupire per singolarità e pensieri evocati.
Epifanie ha dalla sua momenti di inconsueta bellezza narrativa (Rapsodia d’autunno, Morta ma sognante), altri strutturati in maniera più lineare e convenzionale - mi si perdoni il termine assai poco adatto per il cosmo novellistico dell’autore - ma arricchiti da un multiverso di raffinatezze lessicali (La collana di unghie), e, ahimè, anche episodi in cui è protagonista un accenno di autocompiacimento un po’ troppo evidente e difficile da seguire, vista la sua natura monolitica (Mala strana).
L’impressione che si ha poi, talvolta, è che manchi un piccolo approfondimento, un’indicazione descrittiva che permetta di comprendere con più soddisfazione cosa accade tra i vicoli della Praga misteriosa. Ma il fascino che sprigionano le figure letterarie di Ian, aiuta in un’immedesimazione singolare e seduttiva. La conoscenza artistica dell’autore, inoltre, è talmente sconfinata (i vari significati nascosti e le numerose citazioni all’interno dell’opera) che chi scrive può sognarsi di avere - e si sente, tra l’altro, davvero soggiogato nel dare una valutazione oggettiva che comunque premi tale cultura, ma lo dice sottovoce, in modo che non lo senta nessuno.
Epifanie è capace di trascinare nei mondi che imprigiona nelle sue pagine, sa ammaliare il lettore e ipnotizzarlo con la sua natura poetica e ambiziosa, e tanto dovrebbe bastare per soprassedere su alcune incertezze lacunose che, ne sono convinto, lasceranno presto il posto a nuovi incanti narrativi.
Voto: 7
[Simone Corà]

Incipit (dal racconto “Mala Strana”)
Nostalgie di piovaschi autunnali s’inseguono negli aloni gettati dai lampioni. Notti d’Ottobre intarsiano arabeschi di cenere e pietra sui muri e nelle strade infangate.
Non sono mai stato a Praga.
Eppure...
... la scorsa notte, quando le ombre si rincorrevano sui muri di questa città, solitario poeta ho attraversato alchemici vicoli, ascoltato il sussurro dimenticato del vento, temuto ancestrali figure e aspirato esotiche essenze, inseguito spauracchi e chimeriche sagome che fuggivano confondendosi con la pietra.
Tutto in una notte.
Ho intinto i ricordi nei misticismi di una città dimenticata, forse mai esistita se non nelle mie rimembranze. Eppure quella era Praga. Abbandonata, smarrita nei frammenti scomposti di un secolo scolpito nel muro del tempo.
Eterna.
Il crepuscolo scendeva lento, incorniciando le figure, creando vuoti e pieni negli occhi delle statue proiettate dalla mente. Nulla di poetico riverberava in quella visione. Non era possibile scorgere perle di lirismo nel mosaico di fabbriche e cemento che si dipanavano senza soluzione di continuità oltre l’orizzonte, oltre le speranze, oltre il plumbeo biancore dei pastrani e delle giacche, indossate dalle spettrali presenze che aleggiavano nei viali.