di autori vari, a cura di Gennaro Chierchia - pagine 232 - euro 12,00 - Kairòs
Edizioni
Scrivere di Napoli non è mai facile secondo me. Bisogna riuscire a liberarsi, per sfruttare appieno il grande materiale di spunti ed esperienze che questa città fornisce a chi la conosce almeno un po, da un lato degli stereotipi sole, pizza e mandolini, e dallaltro fin troppo facile stereotipo scippi, sparatorie, munnezza e guapperia. Ciò è tanto più vero quando si decide di scrivere un racconto noir, e si vuole sfruttare Napoli, la quale, per inciso, come ambientazione per certe storie non ha nulla da invidiare alle più sfruttate New York e Chicago doltre oceano. Ma per farlo bene, bisogna riuscire a catturare la vena un po folle, atrocemente folle talvolta, e contemporaneamente malinconico, per quanto nascosto dallapparente solarità, di Napoli e della gente che vi abita.
Qui abbiamo 30 autori per altrettanti racconti. Molti fanno parte di quella schiera sempre
più vasta di web-writers che popola i siti web di letteratura di genere, i quali stanno
ormai salendo alla ribalta (www.latelanera.com, www.scheletri.com, www.gcwriter.com, questultimo
sito personale del curatore dellantologia). Non tutti sono specializzati in
letteratura noir, alcuni viaggiano più sui sentieri del racconto horror o della
ghost-story (che pure fa capolino spesso in questa antologia, creando gradevoli intrecci
tra crime-story e sovrannaturale). Alcuni sono di Napoli, altri della vicina provincia,
altri ancora vengono da tutta Italia. Ognuno di loro dà di Napoli una sua visione: quella
del cittadino che vive nella parte benestante della città, o al contrario ha avuto la
sfortuna di nascere nel basso, quella dello studente di provincia pendolare che suo
malgrado si ritrova in situazioni più grandi di lui, o anche forestieri di passaggio per
le più nobili o sordide ragioni, tutti catturati e prigionieri del fascino ammaliante
della vergine Parthenope, e persi nei suoi misteriosi vicoli.
Questa antologia, nella sua varietà (trenta storie molto diverse) mantiene un livello
medio dei racconti piuttosto alto, spaziando tra polizieschi tesi e ricchi di azione,
storie di (stra)ordinaria follia e disperazione, gradevoli affreschi barocchi (più volte
fa capolino la misteriosa figura del principe Raimondo Di Sangro, e i misteri della sua
Cappella di San Severo) e persino racconti che virano verso il misterioso e
sovrannaturale. Nel mare magnum di queste 30 piccole opere vi sono alcune vere perle.
Lascio a voi il piacere di scoprire quali sono i tesori della raccolta, ma non posso
trattenermi dal concludere la recensione con lincipit del mio racconto preferito,
Mammarella di Maurizio De Giovanni.
In ultimo: un plauso per leleganza e la semplicità della veste grafica che spero
contribuisca anchessa a dare nel tempo longevità e credito ad una antologia che
attualmente può essere considerata come uno spaccato tra i più rappresentativi dei più
attivi web writers italiani.
Voto: 7
[Vincenzo Barone Lumaga]
Incipit del racconto Mammarella di Maurizio De
Giovanni
Potessi dirlo, direi così: mi chiamo Luigi Alfredo Ricciardi, e vedo i morti.
Se lo dicessi, mi guarderebbero fisso, accennerebbero di sì con la testa. Si
guarderebbero intorno, preoccupati, valutando la via di fuga o i tempi di un aiuto.
Farebbero forse una risata incerta, ma negli occhi probabilmente manterrebbero una vaga
paura. Quando si parla di morte, la gente ha paura.
Di questi tempi, poi, con questi strani individui che hanno cambiato perfino il calendario
e chiamano anno nono il millenovecentotrentuno, e camminano tirando calci allaria,
la paura ha tanti colori; e uno che va dicendo che vede i morti, magari lo sbattono
dentro, o lo arruolano e lo fanno generale.
Comunque, io non lo dico. A nessuno. E non lo ho mai detto.
Vedo i morti ammazzati, o per incidente, con violenza insomma, allimprovviso. Li
vedo sul posto dove è successo, per un tempo variabile, dieci giorni, un mese, anche due:
vanno sbiadendo come un ricordo, allontanandosi un poco alla volta da questo schifo di
mondo al quale sono stati strappati.
Li vedo con le ferite e il sangue, ma con lespressione dellultimo sguardo, che
ripetono lultima metà del pensiero che la morte ha amputato, continuamente, con lo
stesso tono e le stesse parole. Come un pezzo di queste nuove pellicole col sonoro, che
proiettano nei cinematografi e le donne piangono e gli uomini sorridono. Sempre la stessa
pellicola. Pensateci un po, a essere legati a una sedia davanti a uno schermo che
ripete sempre la stessa scena, allinfinito, ma con tutti i colori, anche quelli che
non vorresti vedere: il rosa delle budella, il rosso delle interiora, il nero del sangue,
il grigio del cervello.
Si imparano tante cose, a vedere i morti, che il resto della gente non si immagina. Che il
sangue pompato dal cuore ancora vivo da una ferita è nero, per esempio; che il cervello
è liquido, quando cola da un cranio aperto da un martello. Che a continuare a parlare con
il polmoni bucati si caccia dalla bocca una schiuma di bollicine, come la saponata per
pavimenti, ma rossastra, come il vino annacquato. E tante altre piacevoli cose, si
imparano.
Potessi parlarne, qualcuno tra quelli non fuggiti mi chiederebbe forse come si fa a non
impazzire. Risponderei che i bambini si abituano a qualsiasi cosa. Io la prima volta mi
sono spaventato, a vedere uno seduto a terra in un giardino con un coltellaccio da
potatore piantato in mezzo alla camicia nera di sangue, con la schiuma alla bocca, che mi
raccontava che lui quella donna non laveva nemmeno toccata. Poi, un po alla
volta, a forza di vedere bambini arrotati da carrozze, donne impiccatesi per amore, guappi
squartati da rivali, ho imparato a camminare a testa bassa, canticchiando motivetti tra me
e me per non sentire, o dando spazio a pensieri riposti.
Cresci con le tue abitudini: e sopravvivi. Certo, non sei come gli altri, e lo sai. Allora
te ne stai per conto tuo, come il passero del poeta gobbo. Nel caso mio, non so perché, i
compagni di collegio intuivano qualcosa di oscuro e mi lasciavano in pace, invece di
sfottermi a morte come facevano con i ritardati o gli zoppi.
E dopo che sei cresciuto, cominci a chiederti che vuoi fare nella vita. E per forza, senza
avere la possibilità di scelta, devi fare il mestiere che faccio io. Per vedere di
rimettere a posto qualcosa, nel processo interrotto: per capire e mettere fine
allopera frettolosa della morte, che ha dovuto tagliare il filo con un unico morso,
senza sciogliere tutti i nodi un po alla volta. Ho fatto il poliziotto, e ora sono
il commissario della squadra mobile della Régia questura di Napoli.